23.2.08

E una tremula mano 

posted in Voci by Giusy - per gentile concessione a LucaniArt

di Giusy Pontillo

E una tremula mano
stringe i pensieri
come stelle filanti;
giace sull’orlo
l’appiglio del vento
e spenta
cade la luce del sole
sulla terra cava:
è stata la disperazione
a togliere il respiro alla notte.
Domani raccoglierò
i resti di ciò che mi resta.


GIUSY PONTILLO è nata a Grassano il 18 marzo 1960. Per un riferimento bio-bibliografico consultare il link all'indirizzo:
http://www.grassano.org/giusi-pontillo/index.html

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30.1.08

Ho lasciato 

posted in Voci by Vincenzo per gentile concessione a LucaniArt

di Vincenzo Capodiferro

Ho lasciato il mio paese,
un gruzzolo di case
tremanti di freddo,
arse di noia tutto l’anno.
Ho lasciato pietra su pietra
senza calce, embrici
abbracciati sui tetti,
vecchi seduti a contare
i giorni al trapasso.
Ho lasciato il bosco avito
di faggio, turbine
di verde sollevato
al cielo. Ho lasciato
il fiume che mangia
i piedi del mio paese,
incurante sulla roccia,
il fiume dove fanciullo
bagnavo l’infanzia mia.
Non più le bionde messi
e gli armenti ridenti
sui poggi montuosi,
non più la freccia dell’aratro
solcare il suolo riarso,
non più gli asini vagare
nei vicoli di pietra
e penombra.
Ho lasciato che morisse
di vecchiaia il mio paese,
vegliardo inchinato
al re Raparo da mille anni.
Ho lasciato tutto
il suo baratro di silenzio.
Nella mia lontananza
risuona l’eco
del suo fantasma.

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13.1.08

Nonna Maria 

Posted in Voci -by Rossana per gentile concessione a LucaniArt
di Rossana De Lorenzo
A guardarla, non le si darebbero i suoi 90 anni. Gli occhi vispi, come piccole perle nere vive, scrutano il mondo, con la curiosità di chi lo osserva per la prima volta. Con la curiosità di chi, pur avendolo visto cento, mille volte nella propria vita, stenta a conoscerlo tutto. A questa costante e tenera esplorazione, fa seguito uno scomposto movimento delle mani, che rugose come la corteccia di un albero, si annodano l’una all’altra, per stemperare un misto di paura e genuinità.
Strette in una morsa insolubile, le mani trovano appoggio sul grembo, rigonfio come il ventre di un neonato, mentre quello sguardo si perde tra le ombre spesse di occhiali inforcati proprio sulla punta del naso. E le gambe, avvizzite dagli anni, dall’età, che tanto la spaventa, si muovono nell’infaticabile ricerca di una postura più comoda, sulla poltrona di pelle, che l’abbraccia. Che abbraccia la piccola figura di nonna Maria. La vita, la sua vita, non le ha concesso molto. Piuttosto lei ha dato qualcosa alla vita, al mondo, che l’ha accolta umilmente quasi un secolo fa. L’ultima di 10 figli, la bimba di casa, a cui il ferreo rigore genitoriale aveva permesso il lusso di studiare. Licenza elementare e poi lavoro, duro lavoro, nient’altro che sacrifici in gioventù. L’amore, quello vero, l’aveva rapita quando era ancora tanto giovane. All’età di 30 anni, aveva già tre figli da accudire, con tutto l’affetto di cui era capace. Soprattutto con tutte le sue forze, perchè il padre dei suoi figli, era partito per il fronte. Siamo negli anni della Seconda Guerra Mondiale.Quanto è stato difficile rimanere aggrappati alla speranza, nonna Maria lo sa bene.Ed ora, nella ripetitività delle sue giornate senili, non le resta che il ricordo ineffabile di ieri, per sempre. (leggi l'articolo anche su http://lucaniart.wordpress.com/)
(racconto inedito, 2007)

Rossana De Lorenzo (Potenza, 1984), è una giovane studentessa di scienze della comunicazione, con la passione per la scrittura e la lettura di differenti generi letterari. Attualmente collabora con una testata giornalistica potentina, "Controsenso", oltre a mantenere vivo il proprio interesse per ogni forma di sinergia culturale.

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26.12.07

Nel petto 

posted in Voci -by Giovanni per gentile concessione a LucaniArt Voci

di Giovanni Di Lena

Abbandonata
come una chiesa di campagna
è questa gente insolita.

Con ceri votivi
e pie processioni
tiene accesa l'anima
di una terra ormai sventrata.

E' racchiuso nel mio petto
il mistero di questa gente
abbagliata
da una luce remota

(testo inedito)
Pisticci, 2007

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27.11.07

Anna Ardù 

posted in Voci -by Raffa per gentile concessione a LucaniArt
di Flora Delli Quadri
Anno scolastico 1949-50, prima elementare.
Compagna di scuola per brevissimo tempo, forse tre mesi, da marzo a maggio.
Orfana, ospite di una zia.
Si chiamava Anna Ardù, cognome dal suono diverso dai soliti cognomi del paese, e per questo memorabile.
La zia non rideva mai quando giocavamo a casa sua, esprimeva solo stizza, come se accudire questa nipote e assecondare i suoi bisogni di bambina costituisse un enorme peso.
In quei tre mesi Anna indossò sempre lo stesso vestito, un gonnellino arricciato con l’elastico infilato in vita e due magliette striminzite che alternava.
Ho un film che mi gira nella memoria, sempre la stessa scena, immutabile nel suo replay. Giochiamo nella piazza vicino casa mia, a fare l’acchiapparella. Anna corre e all’improvviso le si rompe l’elastico, non quello della gonna però, ma quello delle mutande, anch’esse fatte a mano con stoffa di recupero, e anch’esse con l’elastico infilato in giro in giro nell’orlo superiore. Io guardo con un misto di sorpresa, di divertimento e di paura lei che, accovacciata e imbarazzata, si guarda attorno non sapendo cosa fare. Le altre amiche sghignazzano.
Il gioco finisce e il film si interrompe.
Da quel giorno Anna non giocò più con noi e dopo poco non venne più neppure a scuola.
Un giorno chiesi a mia madre:
- Mamma, ma Anna dov’è andata?
- E’ partita
- È partita ?!! Allora non verrà più a scuola!
- No!
- Come sono morti i suoi genitori?
- Non lo so, è un’ebrea
- Che vuol dire che è ebrea?
- Mmmmhh!!!
Non me lo spiegò mia madre cosa volesse dire quel monosillabo, né perché Anna era orfana, né perché quell’essere ebrea non si potesse spiegare. L’ho capito molto tempo dopo, quando la memoria collettiva ha fatto diventare storia l’attualità terribile di quegli anni.
Quando si proietta nella mia mente, il che accade piuttosto spesso, vorrei entrare in quel film e correre lì per aiutarla, chiederle scusa e abbracciarla, dirle di non preoccuparsi perché non l’ha vista nessuno e che se vuole possiamo andare da mia madre che può ricucire l’elastico. Ma è solo un film, di pochi fotogrammi che si interrompe sempre li, sul suo corpo accovacciato per terra, sul suo sguardo spaurito e sul suo viso rosso per la vergogna di fronte alle risate delle amiche. Il film poi ricomincia daccapo, senza soluzione di continuità e io non posso modificarne le scene.
Non so niente di Anna, né perché in quella breve stagione è venuta ad abitare al mio paese, né chi erano i suoi parenti. Non so dove sta, né se è ancora viva.
Mi è rimasta nel cuore profondamente, vorrei poterla riabbracciare e, insieme a lei, tornare indietro nel tempo per girare un altro film, con un finale diverso.

Flora Delli Quadri nasce nel 1944 ad Agnone (Isernia). La formazione politica del genitore, socialista, antifascista e perseguitato, conduce Flora alla militanza politica in un gruppo denominato Gruppo 38, che negli anni '70 fu l'artefice del rinnovamento politico e culturale molisano. La naturale evoluzione della sua militanza la porta ad essere membro attivo del PCI, in ambito locale e regionale. Si trasferisce nel 1975 in provincia di Cosenza, dove attualmente vive e insegna (matematica).

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5.11.07

Lucania 

posted in Voci by Vincenzo - per gentile concessione a LucaniArt

di Vincenzo Capodiferro

Ti ho visto.

Tra le selve inodori
Del solitario alpeggio
Tra il misto
Color dei fiori
D’un lago su un ormeggio.

Non sei tu.

Alpi fragrante e forte
Tu vincitore della morte.

Non sei più.

Tu d’una coltre di selve
Nascosto, di stuoli di belve
Animato. Laggiù.

Terra lucente.
Terra virente.
Terra ingrata.
Terra dimenticata.

Dimentichi invano i tuoi figli,
Dimentichi dei tuoi scompigli,
Lucania.

Ti ho visto.

Tra le balze rupestri,
Tra i prati agresti,
Tra i rivi alpestri.

Non sei tu.

Raparo fiammante,
Deserto di pace,
Di armenti l’amante,
Calanco di Antrace,
Il vello transumante
Il tratturo ferace.

Terra di luce.
Terra di ombra.
Terra di duce.
Boschi e penombra.

Ti ho visto.

Tra le onde spumose,
Le piagge confuse.

Non sei tu.

Tu, Siri, amoroso.
Tu, Achero, furioso.
Torrente di guerra.
Torrente di Serra
Tra le acque lustrali,
Sorgenti astrali
Dei monti addossati, alti,
I manti cretosi,
I fulgidi rialti
Dei sassi pietrosi.

Qui Elea.
L’Essere crea.
Lì Metaponto.
Le Monadi e il Mondo.
Qua il Sambuco
Di Annibale il buco.
Là … il vuoto.
Silenzio e terremoto.

Ti ho visto.

Tra mete oscure
Di cuori e paure,
Ansie e speranze,
Gioie e rimembranze.

Terra lucana
Terra romana
Terra gotica, terra bizantina
Terra saracena, normanna, angioina
Terra spagnola, terra francese
Terra di briganti, terra piemontese

Ti ho visto.

Nei volti
Di perduti emigranti,
nei paesi sconvolti,
senza figli, desolanti.

Madre sterile.
Madre lontana.
Madre nubile.
Madre insana.

Ti ho visto…!


(testo inedito)

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7.10.07

Albero 

posted in Voci by Nunzio -per gentile concessione a LucaniArt

di Nunzio Festa

Gli alberi accatastati
addossati
si chiamano legna

da aspettare

riconoscere

per sentirsi alleggerire
dai brividi
dei lividi che vanno e vanno
e sanno tutto
di me

di sciocchezze purezze
sulla forma

su pietra
di lei che ci sente

prendo l’albero
rinato
sotto un viso
sopra visi

foglie come sorrisi
da sventolare


aspettare
che la bellezza di tutti
sia bellezza un po’ mia


(testo inedito)

Nunzio Festa (scrittore, giornalista) nasce a Matera nel 1981 ed inizia a leggere e scrivere poesie all'età di diciassette anni, mentre frequentava l'Istituto Tecnico Commerciale.
La sua pubblicazione è frutto della conoscenza, se pur autodidatta ed un po' rude di numerosi poeti italiani e stranieri delle tendenze più diverse: Rimbaud, Pasolini, Penna, Vendola, e tanti altri.
Nel mese di febbraio 2004 ha pubblicato con Montedit
"E una e una" - Collana I gigli (poesia) 14x20,5 - pp. 36 - Euro 5,50 - ISBN 88-8356-644-0.

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14.9.07

Schiappino 

posted in Voci by Rosario - per gentile concessione a LucaniArt

di Rosario Castronuovo

La scuola era un rifugio sicuro, perché quando arrivavo il mattino trovavo una maestra buona e comprensiva che, a differenza di mia madre, non mi picchiava mai. In quelle aule imparavo tutto tanto facilmente che i libri alla fine dell’anno rimanevano nuovi come quando mio padre li aveva comperati.
Uscivo da scuola e ritornavo a casa, ma mentre mangiavo tenevo un piede sotto il tavolo e l’altro girato verso la porta di casa. Pranzavo velocemente e scappavo in strada a vivere con i personaggi che trovavo in quel teatro naturale. Ritornavo a sera inoltrata, mi toccava l’usuale razione di botte quando, troppo preso dai giochi, non mi rendevo conto che si era fatto tardi.
Chiappino era il soprannome che qualche buontempone aveva affibbiato a Domenico il falegname. Capitava che, per scherzo, qualcuno chiamasse una sola volta con un soprannome una persona del paese e se il nomignolo raccoglieva un suo pregio o difetto evidente, gli rimaneva appiccicato addosso per tutta la vita.
Chiappino, ho realizzato dopo anni, perché capace di trovare soluzioni a tutti i problemi. Riusciva ad inventare incastri incredibili, come il battito rotondo dei balconi che conferiva a questi una chiusura perfetta. Chiappino immaginavo una chiave elegante, piccola e pregiata di uningranaggio impossibile da aprire.
Schiappino mi chiamavano. Non c’erano ostacoli capaci di fermarmi. Visitavo spesso il falegname quando uscivo dalla scuola, portavo un poco d’allegria nella sua vita ormai faticosa a causa di un’asma che non gli permettevadi respirare bene e gli aveva regalato una tosse intermittente e la necessità di respirare con la punta della lingua fuori dalla bocca. Mi spiegava come calcolava il taglio dei pezzi per costruire mobili, porte massicce, balconi e finestre perfette. Odiava piallare manici di zappe e accette perché, diceva, era lavoro senza testa. Amava il legno di castagno, anche se aveva il difetto di tingere. Per questo lo usava soprattutto per i mobili, anche se, diceva, lo aveva usato spesso anche per le “bocche d’opera”.* Bastava non fargli prendere acqua oppure pittarlo con la nuova vernice che ultimamente vendevano alla bottega invece di dargli l’olio di lino crudo. “E’ serio il castagno. Non si spacca o cambia colore. Si conserva per secoli così com'è nella bottega la prima volta. Anche se tinge. Il legno d'abete è fesso, si ammacca ad ogni minimo contatto, il noce costa troppo e non tutti se lo possono permettere, il ciliegio è raro e chiaro ed ha un colore buono solo per i mobili (ed andava avanti ad elencare per ore) per chi ha poco da spendere l’unico è il castagno”. Ogni tanto rigirava il zizimelo** messo a cuocere davanti all’uscio sul fornello a gas in un barattolo di latta, che aveva conosciuto tempi migliori quando, orgoglioso, portava dentro sarde, un cibo pregiato perché diverso in quei paesi lontani dal mare. Il zizimelo lo andava a raccogliere in autunno dalle ferite sui tronchi degli alberi di prugne e melastri.
Temeva i miei scherzi, ma rideva anche dopo che li aveva subiti. Si affannava a creare incastri per infilare i vetri alle finestre finche non gli dissi di metterci delle strisce per tenerli magari incollati con quella nuova colla bianca.
Rideva compiaciuto quando gli smontavo le sue certezze. Poi passavo dagli anziani che davanti alle porte intrecciavano vimini e costruivano cestini, snocciolavano legumi o intrecciavano farfalle bianche all’uncinetto. Per me era sempre pronta una ficarella secca o una mela lemoncina. Dal fabbro sognavo fuochi d’artificio alle scintille che sprigionava il martello che batteva il ferro sull’incudine mentre giravo il mantice.
Schiappino mi chiamavano e mi piaceva, all’imbrunire, quando i contadini ritornavano dalla campagna, legavano l’asino alle ringhiere e si apprestavano a scaricarlo, solleticare l’animale sotto la pancia vicino alla gamba posteriore. Il povero, indifeso scalciava furioso tra le urla del padrone che si disperava per le fascine e gli ortaggi che volavano in aria. Sapevo come difendermi dai calci mettendomi tra la testa legata e le zampe posteriori in modo da non essere colpito. La volta successiva l’asino scalciava e ragliava solo nel vedermi arrivare.
Mi piaceva giocare con i miei coetanei. A volte nelle classi la maggior parte dei bambini erano figli d’artigiani, nella mia c’erano solo figli di contadini cui servivano due braccia, anche se piccole, per la sopravvivenza. Per questo motivo spesso ero costretto a chiedere di poter giocare con ragazzi più grandi di me e non essere accettato. Li costringevo compiendo un semplice quanto naturale gesto, fingevo di raccogliere una pietra per terra. Ce n’erano tante in giro perché la strada era solo ghiaiata. Puntualmente avveniva il miracolo, diventavano tutti gentili e disponibili. Il figlio del capufficio delle poste rosicava chiodi amari ed a malincuore mi portava a vedere rin tin tin nel pomeriggio a casa sua. Sapeva che se non l’avesse fatto innanzi tutto gli avrei benedetto la porta di casa con una lunga pisciata e il giorno dopo correva il rischio di beccarsi una pietra in testa. Era l’unica televisione del paese.
Mi temevano per colpa di un merlo che un pomeriggio, mentre giocavamo al pallone in un campo che doveva essere di calcio, solo che avevano dimenticato di tagliare la grande quercia al centro, ed in discesa, si fermò sul tronco tagliato di un albero che era adagiato nell’erba, e si guardava intorno come se cercasse qualcosa. Avevo imparato presto a tirare le pietre. Ne sceglievo una piatta e rotonda, la pulivo bene con il palmo delle mani, poi la mettevo di taglio tra il pollice e l’indice, ci sputavo sopra e ci alitavo quasi a volerle dare un’anima, allungavo il braccio e chiudendo l’occhio sinistro prendevo la mira con il destro, allungavo la gamba sinistra in avanti e roteando il braccio e il polso come una catapulta, colpivo con una precisione impressionante. Presi una pietra piatta e rotonda e lo colpii in testa. Il poverino si accasciò senza un lamento e da quel momento i compagni raccontarono l’accaduto come qualcosa d’eccezionale mitizzando le mie capacità.
A primavera andavo in giro per le campagne mentre gli uomini si affannavano ad arare i campi per la futura semina.
Spuntavo all’improvviso sui dirupi dove riuscivano ad arrampicarsi solo le capre in cerca dei germogli più teneri e profumati, allo sguardo delle donne che preparavano gli orti nella valle. Cercavo nidi e i poveri uccelli non avevano scampo perché avevo imparato come li mimetizzavano e le piante su cui ogni tipo d’uccello lo costruiva.
In estate andavo per le aie a guardare la trebbiatura, e di notte, visto che non si andava a scuola e mi era permesso stare fino a tardi, spiavo le coppie che facevano l’amore tra le grègne.
Chiamavamo “zio” tutti le persone che erano almeno di una decina d’anni più grandi di noi.
Zia Rosina era vecchia e viveva da sola in un basso. Una stanza al pianterreno. Quei locali erano generalmente stalle, perché umidi. Le buone famiglie vi facevano abitare, senza ricevere l’affitto, le persone sole e povere. Su un lato della porta si ricavava un camino, di fronte la cristalliera e la ramera, al centro un tavolo piccolo e rettangolare(la buffette), in fondo il letto con il comodino e il comò.
Zia Rosina, spesso in pieno giorno, si metteva sul letto nella posizione del morto, guardava il soffitto di tavola e partiva.
Un giorno la mezza porte di sopra non si era chiusa. Gli detti un colpo e s’aprì. Sulla punta dei piedi riuscivo a superare solo con gli occhi la mezza porta di sotto. La vidi sul letto a pancia in su ferma, con gli occhi aperti, sembrava non respirasse. Restai in quella posizione il tempo non ricordo. Lentamente incominciò a muoversi quasi percepisse una presenza, si voltò verso di me, si alzò e venne ad aprirmi. Faceva di tutto per sfuggire al mio sguardo che la imbarazzava, come ipnotizzato la guardavo dritto negli occhi. Mi affermò che era andata per le grotte dove vivono
i morti che sono buoni perché non hanno potere sulla terra ma che le dicevano cose che nessuno conosce. Che il viaggio era molto faticoso, e queste cose lei le faceva a fin di bene. Quanto più parlava tanto più si agitava perché non le toglievo lo sguardo dal volto. La gente del paese era convinta che quando visitava il neonato di una famiglia povera, credendo che facesse fatica a crescerlo, s’impietosiva e ne provocava la morte; lo stesso destino era riservato al malato che suscitava la sua pietà.
Prese dalla cristalliera una pastarella e me la diede, la mangiai con avidità, poi quasi per tranquillizzarmi mi disse: “Con te non pone. C’è un 13 e un 50” mi aprì la porta e me n’andai. Nei giorni successivi quando passavo davanti alla sua casa non dimenticavo mai di chiamarla per salutarla. Miracolo di una pastarella.
I mesi più angoscianti per la mia famiglia erano marzo ed aprile. Il Serrapotamo è un fiume che fa ridere durante l’estate, porta tanta poca acqua che a volte lascia a secco gli orti, d’inverno fa il suo dovere senza esagerare. E’ a primavera che diventa rissoso e non sai come prenderlo quando, all’acqua dei temporali, si unisce quella delle sorgenti e delle nevi che si sciolgono.
Mio padre doveva attraversarlo per recarsi a Vallina a fare il suo lavoro di fabbro. Al paese ce n’era già uno più anziano, per rispetto mai gli avrebbe fatto concorrenza, avrebbe aspettato per occupare il suo posto quando lui smetteva.
A primavera, quando si faceva buio e mio padre non arrivava la mamma incominciava ad avere paura che nell’attraversare il torrente gli fosse successo qualcosa e mi mandava a vedere se ricevevo qualche segnale che la tranquillizzasse.
La nostra casa era in periferia, costruita su una timpa che era la parte finale e l’unica visibile di un blocco di roccia su cui è appollaiato il paese.
Mi sedevo sulla punta della timpa, lo sguardo andava verso i campi, i sentieri che cingevano le colline come un lungo serpente che si snodava dal torrente, la valle e saliva fino al paese incrociandosi e separandosi continuamente riportavano a casa coloro che erano andati a lavorare nei campi, la strada rotabile ancora ghiaiata, più larga tagliava le colline come fossero pani appena sfornati, di lato, a volte si nascondeva nei boschi che riempivano la terra ed il cielo; percorso un tratto dritto girava sulle curve e si vedevano comparire ad intermittenza le luci dei fari che tagliavano l’aria colpendo gli alberi, ogni tanto qualche vigna e le ginestre ormai fiorite.
Guardando verso valle, di fronte si notavano puntini luminosi ora raggruppati, ora isolati, erano le case di Vallina, Senise e sulle colline quelle lontane di Valsinni e Rotondella. A destra le luci delle case in prossimità della vetta Grattaculo del monte Pollino fino a Noepoli e i suoi fianchi. Si notava appena la striscia a serpente; il sentiero percorso da chi tornava a casa dalla campagna si riempiva di un parlottìo fitto con voci di tonalità diverse spesso riconoscibili di persone che per alleviare la salita parlavano di capre tarde a sgravare, viti che andavano a male, grano che cresceva poco… risate ed ogni tanto urla…non troverai mai un contadino sazio e felice del suo campo.
Quella che mi faceva arrabbiare era la luna. Ammantava la campagna con un velo d’argento in modo che il paesaggio s’immaginasse facendo intravedere forme e sfumature.
Dopo un po’ incominciavo a gridare chiamando “papà” e l’eco mi rimandava la voce come se non volesse farla passare.
Da lontano, sopra Calvera su uno spuntone ai confini della foresta Magrizzi, forse scambiando il mio urlo per una sfida o per affermare la sua presenza agli altri branchi sul territorio, rispondeva l’ululato di un lupo che incuteva un timore profondo e una paura istintiva e primordiale. Appena possibile mio padre rispondeva, dissipava tutti i brutti pensieri ed io, senza perdere tempo mi precipitavo a casa per comunicare la notizia a mia madre ed invitarla a calare nella caldaia con l’acqua bollente, i rascatielli****.
Quando le belle giornate lo permettevano andavo a giocare nelle grotte sotto la timpa. Ce n’erano molte ed erano il regno di pipistrelli, lucertole e serpenti. Qualche volta ci si nascondevano le coppie innamorate. Mi ero costruito un arco con un grosso salice ed alcuni ferri di un ombrello rotto. Lo nascondevo ogni sera nella stalla dopo le battaglie contro i soldati. Gli indiani e i draghi che ho ucciso io in quel periodo non li ha mai uccisi nessuno. Avevo anche costruito una spada con una stecca di legno appuntita e all’altra estremità un pezzo di legno più corto inchiodato a croce.
Le battaglie si susseguivano furiose e, spesso ero aiutato dai briganti e dai monacielli che si nascondevano nelle grotte e che uscivano solo la notte per divertirsi solleticando sotto la pianta dei piedi le belle donne; per me eccezionalnemte si facevano vedere anche di giorno, visto che ero l’unico che non cercava di prenderli.
Si affermava che chi fosse riuscito a prenderne uno, questi avrebbe dovuto, per farsi liberare, per forza rivelargli il nascondiglio del loro tesoro.
I draghi poi erano eccezionali perché capaci di correre e volare. Quando volavano bucavano il cielo.
Un giorno mia madre riuscì a trovare l’arco, lo fece provare ad un ragazzo più grande perché ne verificasse la pericolosità e, visto che si piantava con efficacia e precisione nella porta di legno della stalla per due centimetri, me lo sequestrò subito.
I campi tra la primavera e l’estate si vestivano di colori molto belli. Passavano dal verde chiaro del grano con delle variazioni di giallo dovuto al maggiociondolo fiorito ed alle ginestre su cui spiccava il fucsia dei cardi e il rosso sangue dei papaveri, al verde scuro e spesso cupo nella profondità del bosco. Poi predominava il giallo oro del grano, delle stoppie e dell’erba che ingialliva sotto il sole forte e preparava l’autunno.
In autunno mio padre si faceva prestare un asino da un amico ed incominciavamo a fare il giro delle famiglie cui aveva costruito attrezzi per la cura dei campi o ferrato l’asino o il mulo. (Sperava nel colpo di fortuna di fare qualche ringhiera ad un “don”, appellativo che identificava un prete o un uomo ricco per ricevere in cambio dei soldi).
Era il momento di ricevere la paga. Preferiva avere in cambio grano con cui avremmo trascorso un inverno tranquillo.
Quando la trebbiatura portava per qualche contadino un raccolto scarso o si rimandava all’anno dopo oppure si accettavano legumi o qualche pollo. Mentre ritornavamo a casa sentivamo gìà le urla con cui mia madre sapevamo che ci avrebbe accolto perché scontenta di quello che avevamo raccolto.
Una sera, sul tardi, mia madre cercava di chiudere una calza di lana grezza per mio padre seduta davanti al camino dietro di me che mi riscaldavo seduto alla scannella.*** Le feci notare una grossa falena immobile su un mattone a fianco del fuoco. “E’ il nonno che sente freddo. E’ ritornato per riscaldarsi un poco”. Il mattino dopo la grossa farfalla non c’era più. Il nonno negli ultimi anni, si sedeva al sole sull’uscio; appena i suoi raggi incominciavano a dare calore lui se ne dissetava e mi guardava giocare. Parlava poco ma ci capivamo al volo, guardandomi rideva compiaciuto con gli occhi e ringraziava il signore par il tempo che gli aveva donato. Il nonno era morto da qualche giorno.
Non passò molto tempo e una sera di primavera mi ritrovai seduto alla scannella, di fronte a me c’era una sedia che usavo come tavolino; non andavo più sulla timpa a chiamare mio padre, avevo appena incominciato ad imparare a scrivere. Scrivevo una lettera di cui ricordo solo qualche parola “papà ti voglio bene”.

*bocche d’opera chiamavano tutte quelle strutture di legno (finestre, balconi ecc.) che completavano la chiusura della casa verso l’esterno.
** Colla
** *piccolo scanno fatto apposta per i bambini in modo da potersi sedere davanti ai grandi riscaldarsi al camino.
*** *Pasta fatta in casa

Racconto inedito - Il 6 novembre c.m. sarà oggetto di discussuine da parte degli scrittori del Circolo "Mario Arena" presso il Thè letterario di Genova.

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30.8.07

Gli insulti dell'indifferenza 

posted in Voci by Mariano - per gentile concessione a LucaniArt

di Mariano Lizzadro

A pancia all’aria
al ritmo di poesia
obesi ed alteri
allegri e dimentichi
mentre si consuma
come tenue candela
a San Mauro Forte
il Poeta fra i poeti
depresso ed isolato
ra i suoi libri di Celan
e Amalia Rosselli


(inedito di Mariano Lizzadro)

Mariano Lizzadro è nato nel 1972 a Potenza dove risiede. Si è laureato in Psicologia con una tesi su Dino Campana. Ha pubblicato Frammenti di viaggio Ed. Appia 2 (1999), Parole contro Ed. Scriptavolant (2003), Parlano parole Ed. Besa (2007). Collabora con articoli di letteratura e critica cinematografica al Progetto LucaniArt.

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16.7.07

Preghiera del mezzadro 

posted in Voci by Antonella -per gentile concessione a LucaniArt

di Antonella Pizzo

Madre degli ulivi che tutto fai e distruggi
accogli la supplica di questo mezzadro
la mia terra si è svegliata inaridita
il ruscello che vi scorreva in mezzo ha sperso l’acqua
ieri le spighe danzavano al vento
oggi sono stecchi morti imbalsamati
madre la lingua è secca e non posso più parlare
il mio palato è diventato pietra
non dice la mia bocca la parola giusta
il mio pensiero si è infiammato al sole
Madre dell’uva e del mosto che lieviti
il pane e il malto fermenti
le mie corde vocali tendi e l’ugola libera
da questo impasto di calcare che stritola
fammi canto di accoglienza e gioia
fammi suono e belato di pecora
in pastura e campanacci su per la montagna
dove di notte vigilano i pastori
affinché possa risollevarli
intonare assieme a loro un’aria
una canzone di costellazioni ed astri
affinché si risveglino i semi
germoglino i fiori e i frutti negli alberi ricrescano
ricchi di zucchero e polpa odorosa
e mangiarli a morsi a morsi
scolando dai lati della bocca i succhi
che cadono a terra e formano un fiume
e canne e papiri alti, fogliame di speranza
ombra dove riposare con un filo d’erba in bocca.

***

Antonella Pizzo è nata a Palazzolo A. nel '54 e vive a Ragusa. Ha pubblicato nel 2004 in autoproduzione "Strati" raccolta di poesie siciliane - per Prospettiva Editrice il romanzo "Di rosso smunto" - nel 2005, per LietoColle, la raccolta di poesie "A forza fui precipizio" - nel 2006 la silloge "Catasto ed altra specie" per Fara Editore. Su internet gestisce i blog letterari Letture e scritture e Via delle belle donne.

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25.5.07

Estratti da “Poesie su tosse muraria” 

posted in Voci by Alfonso - per gentile concessione a LucaniArt

di Alfonso Guida

... stagione estrema che sorbisce il caldo
le impennate, il condottiero teatrale
giù per strade innamorate e messe
sotto frescura a far nidi d’artista
visivo fin dove l’audacia resta
possibile e certo il balzare rapido
sui viali che i passanti aprono a foglie
scarlatto e io malato per quella porpora
senza sorriso indicavo il ristoro
romano, l’asta vittoriosa, il ponte
dei bagliori, con la luce che in testa
fa sorgiva pianura, un laccio informe
che tira le mani fino a staccarle
nell’opra dedicata e un guizzo d’oro
sul piatto virtuoso che raffigura
l’’accoppiamento canino d’estate
la malva sciabolata,il vano muto
del sentore e dei flussi inargentati
la folta ghirlanda del riso e il verde
calmo dei prati quando la ragazza
si svitò dai passanti e vide aurore
boreali allinearsi al confine, lei, arte
del dio di ogni totale appezzamento
di brughiera denso in scie e spessore e alte
conficcate manovre rurali ora
che la ressa dei fidi scioglie il corso
dei più esigenti spettatori e questa
voce corrente a scorsoio nel nodo
del malditesta scisso in diagonale
nel destreggiarsi proficuo delle armi
dei lavori che il comandante omette
nell’ardore e nel soffio che stratifica
le nevralgie boscose dei segni e oltre
la sua vellutata macchinazione
l’ordine inferiore dei grandi artropodi
che tu classifichi perchè la mente
ne ha bisogno, un nutrimento animale
nel neurovegetativo frammento
che si tramuta in visione e emicrania
possanza dell’avvicinarsi al gelo
sfiora la virtù celeste del rosso
come si colora nel viso e dona
l’occulta negazione di ogni folle
girasole, a te piaceva anche il succo
ma la morte ti velava l’inizio
del discorso, inciampavi nel bicchiere
di vino,, separavi da ogni lettera
qualunque legamento e non volevi
si chiamasse più alfabeto o linguaggio.

(Ospedale psichiatrico, Policoro, Alfonso Guida)


Alfonso Guida è nato a San Mauro Forte il 22-09-1973. Ha esordito con il libro di versi “Il sogno, la follia, l’altra morte” (Laboratorio Delle Arti , Milano, 1997) Premio speciale opera prima Dario Bellezza,1998.
Nel 2002 ha vinto per gli inediti il Premio internazionale E. Montale con la plaquette “Le spoglie divise “(15 stanze per Rocco Scotellaro). Nel 2004 è Premio Laboratorio delle Arti per la sezione “Antologia d’autore”.
E’ consulente per tesi di laurea sull’opera e la figura di Dario Bellezza, Amelia Rosselli e Paul Celan.

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24.4.07

I miei morti di Jasenovac m’insegnano la storia 

posted in Voci by Gennaro - per gentile concessione a LucaniArt

di Gennaro Grieco

(Canto zingaro per il 25 aprile)

Proprio non ho tempo per le illusioni,
per distinguere il sogno dall’inganno,
piegarmi alle paure di ogni giorno;
proprio non ho tempo, perché i miei morti
di Jasenovac m’insegnano la storia
e sia io zingaro o bastardo del tempo
sono un uomo con un nome e una storia.

Davvero mi basterebbe assai poco
per guidare sulla via gli occhi stanchi,
restituirmi all’unico patrimonio
che è la vita; poco, poco io vi dico,
un pane solo da offrire ai miei figli
e una mano che la mano mi tenga
se male mi viene al calar degli anni,
una veste lisa per la mia sposa
e giusto un cielo aperto come casa,
un nome che in ogni luogo mi valga
e un’aria buona da insieme dividere
: fra uomini, siano essi inermi o bastardi
del tempo, siano essi zingari o santi.

Poco, come il tempo che ancora resta
per le illusioni, se ora il vento nuovo
non veste di speranza; non chiedo altro,
non chiedo altro, amici, e, queste parole,
con preghiera di porgerle domani
quando non ci sarò: per quelli a cui
hanno taciuto e i figli che verranno,
perché i miei morti di Jasenovac¹ ancora
insegnino la storia.

(25 aprile 1994)

1. A Jasenovac (Croazia) nel 1942 trovarono orribile morte decine di migliaia di zingari, trucidati nei campi di sterminio.

Testo vincitore della sezione internazionale (in lingua italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola) della I Edizione del Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Amico Rom”, Lanciano (CH), 10 ottobre 1994.
Tratto dal volume di Gennaro Grieco, La vocazione e le idee, Venilia Editrice, Montemerlo (PD), 1995.
Il sito di Gennaro Grieco è all'indirizzo www.gennarogrieco.it

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20.4.07

'Mbruoglio 'i cipuddine paisane 

poested in Voci by Teresa - per gentile concessione a LucaniArt

di Teresa Armenti

Simu proprio ‘nda nu ‘mbroglio
‘i cipuddine.
‘A terra é rivutata
ra sotto a sopa,
ra capo ‘mberi,
ra restra a manca.
‘A povera MARGHERITA
C’è capitata ‘menzo.
Chi ‘a tira ra nu verso
e chi ra n’ato
e chi ‘a lassa ‘ndrungo.

‘A CERZA granne,
ca rosa a li peri,
scafata atturno atturno,
avi li rariche ca essono ra fora.
‘Nda ‘na iaccatura ‘menzo,
c’è nu niro ca cova.

‘A bella ROSA rossa
é guardata a vista
ra li portatori ‘i VALORI.

E ‘u GADDO canta ra matina
“FORZA! FORZA! Amici mei,
ch’ama coglie li cipuddine”.

Imbroglio di cipolline paesane. Ci troviamo proprio in un imbroglio di cipolline./ La terra è rivoltata sottosopra/ dalla testa ai piedi/da destra a sinistra/. La povera Margherita ci è capitata in mezzo/ Chi la tira da una parte/chi dall’altra/e chi la lascia all’improvviso/La quercia grande con la rosa ai piedi/ scavata in giro/ha le radici che escono fuori/Nella spaccatura in mezzo/ c’è un nido che cova/. La bella Rosa rossa è guardata a vista dai portatori di Valori/ E il Gallo canta dalla mattina ”Forza! Forza!, amici miei/ perché dobbiamo raccogliere le cipolline”

'Mbruoglio 'i cipuddine paisane e’ stata scritta, con un pizzico di ironia, in occasione delle consultazioni elettorali amministrative del 27/28 maggio 2007, per la formazione delle liste in un piccolo paese del Sud Italia. Non c’è accordo tra i partiti; c’è solo tanta confusione. Nessuno vuole cedere (Teresa Armenti)

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13.4.07

Stanza 217: non disturbare (1) 

posted in Voci -by Luc Faccenda per gentile concessione a LucaniArt
di Mauro Savino

E’ il 26 Gennaio del 1967. E’ sera. Non siamo a Miami. Non c’è nessun Re Lucertola in declino con la barba e strafatto come e più del solito. No non siamo a Miami. Non ci sarà nessun processo per oscenità. Nessuna fuga a Parigi e niente vasche da bagno, vere o presunte. No. Siamo in Italia. Quella che ascolta i Beatles e i Rolling Stones ma che non manca di apprezzare brani di zombie (già 40 anni fa!) come Orietta Berti e testi pseudo-made in Berkley: quella che motteggia e incita al cambiamento così tanto per fare. E in fondo non ci sarebbe poi tanto da ridire se non fosse che certe cose finiscono poi per rappresentare il “meglio” della canzone italiana nella più importante manifestazione ad essa dedicata. 26 Gennaio dunque. Un ragazzo di nemmeno trent’anni si imbottisce di pronox dietro le quinte, dopo essersi scolato un’intera bottiglia di grappa. E’ sudato, tremante, ha gli occhi spenti e fissi, la sua voce è calante e lontana dal sassofono di cui è impastata, stona, non va a tempo. Canta malissimo. Non canterà mai più. L’allora direttore di Radiocorriere, Ugo Zarattin ripesca Pettenati e la giuria manda in finale “Io tu e le rose”: Italietta in action…26 Gennaio 1997. Un ragazzo riccioluto e maldestro alla guida chiede e ottiene dal padre che gli lasci prendere la macchina. Ma non è a far bella mostra della macchina di papà che sta andando. E’ in un piccolo negozio di musica, che sta andando. Ha messo da parte i soldi per una cassetta. Un cantante italiano…fine anni 60…diverso…suicida. La macchina ha lo stereo a cassette. Così potrà passare la serata in compagnia del suo nuovo eroe. Se ne va in un vicolo e comincia ad ascoltare…era proprio come se lo aspettava. Tanta. Troppa verità. E tutta in una volta. E alla fine si ritrova davanti la copertina di una cassetta bagnata e due occhi neri e intensi che guardano di lato.Il ragazzo offrì la sua amicizia al cantante.E da allora, nelle sere di maggio – dicono – se ne va da solo cantando le sue canzoni.
(Luigi Tenco - disegno a matita di Mauro Savino)

Il blog di Mauro Savino all'indirizzo http://www.maurosavino.blogspot.com/

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4.4.07

Come giovinezza 

posted in Voci -by Rocco per gentile concessione a LucaniArt

di Rocco Erario

Lenta agonia
come neve all'ombra,
come ombra di neve.

Raggi glaciali
di un fuoco bagnato,
scaldano pietre roventi.

Ad ogni trillo
un sussulto;
per ogni verbo
un colpo.

Sarei dovuto andare
quando chiamarono.
Sarei dovuto andare!

I sassi non rotolano
senza aver scarpate;
le libellule non fuggono
senza ali spiegate
e non viene mai notte
senza che giorno non affoghi.

Quando il mare ingoia il sole
brilla di luce riflessa:
s'infiamma,
s'impenna
e smorza il suo canto,
e s'annega
toccando terra:
come spuma,
come brina,come giovinezza.


*

Rocco Erario è nato a Potenza ventinove anni fa, ha vissuto a Cancellara fino all'età di vent'anni per poi frequentare la Sapienza di Roma e trasferirsi a Milano, dove vive, per studiare musica. Ha conseguito un diploma di maestro di chitarra elettrica, solfeggio, teoria, armonia e musica d'insieme.

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21.3.07

Verso Otranto 

posted in Voci -by f. per gentile concessione a LucaniArt

di Francesca Zito

Verso Otranto.
Inaspettata coerenza.
La mia, semplice curiosità.
Porto di mare e di vite.
Frenesia mattutina nell'aria.
Camminare.
Mistificazione di me.
Pochezza di me.
Fastidio.
Probabile inconsapevolezza di ciò che lascio.
Sicura incoscienza di ciò che troverò.
Cercare. Divenire.
Oggi. Lungo il mio silenzioso tragitto.
Lungo i sentieri del mio Essere.
Singolari scoperte.
Ho incontrato nuovi orizzonti.
Colmi.
Vento nelle mani.
Terra rossa ed acre.
Ulivi dalle foglie d'argento.
Gazze sui rami.
Rose selvatiche, febbrili ed altere.
Papaveri rossi e lussureggianti.
Nuvole alte, trasparenti e profumate.
Girasoli enormi e simpatici.
Incolmabile assenza.
E dietro la collina, ecco l'incanto.
Mestizia.
Distesa blu cobalto.
Perle d'invidia e saggezza nascosta.
Sabbia color ocra...ed i miei occhi febbricitanti.
Conchiglie naviganti e Gabbiani eterei.
Idee tumefatte nella felce.
Io, immemore di segreti taciuti.


Francesca Zito- Redattrice , capo servizio , membro dell'Editorial Staff di Liberalia Magazine -Note di Cultura Meridiana, e del portale web www.liberalia.it ; curatrice del Potenza Film Festival Daily Magazine "L'Incrocio dei Venti" e "CineStylo". Il blog di Francesca "Lo sguardo che resta"

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24.2.07

Angiolina 

posted in Voci -by Raffa per gentile concessione a LucaniArt
di Flora Delli Quadri
Era una quasi mamma per me. Abitava a 20 metri, di fronte casa mia. Alta, imponente, con i capelli legati dietro la nuca a formare il “tuppo” (chignon), pettinino e forcine di finta tartaruga, accoglieva tutti con un gran calore.
Il portone di casa era sempre aperto. A destra entrando, c’era un minuscolo bagno con il solo water; a sinistra la scala alla cui sommità si trovava la cucina, anche quella sempre aperta.
“Angiolì”, chiamavo ad alta voce entrando dal portone.
“Uèh”, rispondeva lei con la sua voce naturalmente allegra e gioviale.
“Ha ditt mamma, damm ru ‘ndrattìat”-
“N’ l’ tìang, ma assettat na ‘nze”
(“Angiolina, ha detto mamma, dammi l’intrattieni, che voleva dire intrattienimi”- “Non ce l’ho, ma siediti un po’).
E così io aspettavo che mi desse “ru ‘ndrattìat” convinta che fosse un dolce. E intanto lei chiacchierava, chiacchierava, qualche volta mi raccontava le favole, e il tempo passava. Mia madre era soddisfatta de “ru ‘ndrattiat”, ma io non avevo ricevuto il dolce che m’aspettavo. Angiolina era comunque una compagnia piacevolissima, sempre gioviale e allegra, nonostante una vita di ristrettezze economiche.
Il marito, zoccolo duro del Partito Comunista, era un operaio edile di cui lei era innamoratissima. Profondamente religiosa, ne aveva abbracciato la causa, mescolando la fede politica con la fede in Dio così intimamente, da averle rese indistinguibili. Aveva fede in senso lato e da questa traeva la sua forza e la sua serenità. Credeva fermamente nel riscatto delle classi sottomesse, ad opera di Baffone o di Cristo non faceva differenza. Andava in chiesa e si comunicava regolarmente.
Un bel giorno, eravamo negli anni ’50…
Ma andiamo con ordine.
C’era, vicino casa, la vecchia stazione ferroviaria dismessa subito dopo la guerra, regno dei nostri giochi. Un giorno, che stranamente ricordo con eccezionale vivezza pur essendo all’epoca molto piccola, arrivò un monaco, un Padre Cappuccino da Serra Capriola. Chiese informazioni su dove fosse la stazione ferroviaria. Gliela indicammo, lui la visitò, poi andò dal sindaco.
In breve tempo la stazione non fu più nostra, i frati se ne impossessarono e vi insediarono il convento. Il paese, già molto clericale, con tredici parrocchie e tredici parroci, poteva adesso godere anche del Convento dei Frati Cappuccini, il che volle dire in breve tempo oratorio, biliardino, recitine, canti, Terzo Ordine ecc.. ecc…
Il guaio fu che tutti i fedeli, di colpo, abbandonarono le loro vecchie parrocchie per riversarsi nel circolo fondato dai frati. “Rumore di scope nuove” diceva il parroco Don Giuseppe, il più trasgressivo dei parroci. Ma si sbagliava: il fenomeno dell’esodo dalle parrocchie verso la nuova realtà fu inesorabile. L’esodo raggiunse il culmine con l’arrivo di un monaco, esorcista, “comandato da Dio” per combattere il diavolo. Ogni sera, dall’altare, intratteneva i fedeli con il racconto delle sue esperienze da esorcista, creando un pathos indescrivibile. Le sue prediche, a puntate, erano come uno sceneggiato televisivo di oggi: “Andiamo, andiamo, oggi c’è la seconda, la terza, la quarta….. puntata.”
Tutti, Angiolina compresa, erano felicissimi del rinnovato fervore religioso, tranne i parroci abbandonati a se stessi.
Una domenica, la piccola chiesa gremita di gente, Angiolina come sempre andò a confessarsi. Il monaco esorcista conosceva Angiolina e probabilmente aveva già tentato di dissuaderla dal votare per il Partito Comunista, ricevendone sdegnoso diniego. Quel giorno, da dietro la grata del confessionale, lui reiterò la richiesta, lei rispose “NO, MAI!” e il monaco le negò l’assoluzione.
Angiolina, arciconvinta che ricevere l’ostia fosse un suo diritto, si recò lo stesso all’altare. Il monaco la vide e le passò davanti col vassoietto, negandole l’Eucarestia.
Fu scandalo generale, si crearono i fan e gli anti Angiolina, tanto da diventare quasi un'eroina!
Il Parroco Don Giuseppe gongolava, sperando invano che i fedeli tornassero a lui.
Angiolina per quella domenica non si comunicò, ma la domenica successiva andò a farsi la comunione in un’altra chiesa, da un altro parroco, più tollerante e forse più vicino a Dio del nostro bravo monaco esorcista/integralista.
Oggi Angiolina non c’è più, è morta quattro anni fa. Ha continuato a volermi bene e a darmi “ru ‘ndrattìat” ogni volta che andavo a trovarla. Stavolta però era un vero “’ndrattiat” come lo sognavo da piccola: una bella fetta di ciambellone preparato da lei. Ce n’era sempre uno in casa, qualsiasi fosse l’ora o il giorno della settimana in cui la visita avveniva. Lo tagliava con religiosa cura, avvolgeva la fetta con un tovagliolino, poggiava sul tavolo un bel bicchiere di vino, rigorosamente bianco, e mi offriva il tutto pronunciando un semplice “alla salute”.
Questo augurio, pronunciato con la sua voce allegra e gioviale, somigliava sempre più a una preghiera di ringraziamento al Signore, man mano che andava avanti con l’età! E quel bicchiere di vino bianco era quasi un simbolo religioso. Per me invece era probabilmente, o più semplicemente, un brindisi alla faccia di chi tentava o tenta di mortificare uno spirito libero.
Flora Delli Quadri nasce nel 1944 ad Agnone (Isernia). La formazione politica del genitore, socialista, antifascista e perseguitato, conduce Flora alla militanza politica in un gruppo denominato Gruppo 38, che negli anni '70 fu l'artefice del rinnovamento politico e culturale molisano. La naturale evoluzione della sua militanza la porta ad essere membro attivo del PCI, in ambito locale e regionale. Si trasferisce nel 1975 in provincia di Cosenza, dove attualmente vive e insegna (matematica).

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14.2.07

Storia d’amore con cipolle 

posted in Voci -by Gina per gentile concessione a LucaniArt
di Gina Labriola

" Hai visto che nebbia? Che tristezza! Dai, raccontami una storia d’amore...ma che sia allegra "
" Storie d’amore, io? Se vuoi, posso anche raccontartele con allegria, ma con happy end, neanche una! Se ti servono per passare il tempo, lungo questi binari infiniti che sembrano non andare in nessun posto, e bucano la parete di nebbia solo per trovare altra nebbia, allora... L’amore felice non ha storia: è lì, immobile, come un sole di rame in un cielo di smalto, e non ha ombre. Solo le ombre danno vita alla luce... come questa nebbia che tutto copre di mistero. Lo sai:

Voglio bene anche alla nebbia.
fascia il dolore
attutisce il grido
ovatta la vergogna.
Non lo sapevo
che la nebbia
era mia madre"

" Lo so : poesia, e ancora poesia. Puoi poetare su tutto, anche su questa nebbia sporca che mi penetra nelle ossa e mi da tristezza. Perfino sulle cipolle. Ma io voglio una storia..."
" E perchè non una storie di cipolle? Una storia d’amore con cipolle? Ecco: fu tanto tempo fa... "
" Dove? "
" Là, nella città incantata, dove vissi le mie mille notti meno una. Mille notti d’attesa... "
" In attesa di che? "
" Dell’amore ardente, rovente, veemente, bruciante, delirante... felice, insomma. Invece... "
" Invece? Ma che c’entrano le cipolle? "
" Era un uomo bellissimo... "
" Naturalmente! Tu non imbastiresti una storia con un uomo brutto! Naturalmente era alto... "
" Alto, snello, bruno... elegante. Giovane, ma era già un regista famoso. Corteggiatissimo ovviamente da attrici in voga, aspiranti attrici, ex attrici, oltre che da sceneggiatori, scrittori, operatori. Si chiamava Bahmàn Mossaferàd "
" E da te che voleva? "
" Che gli suggerissi una sceneggiatura. Roba sull’Italia. Era stato in Italia, era innamorato di tutto quanto gli ricordava l’Italia, e forse un poco anche di me. Così, almeno, io credevo, volevo credere. Mi telefonava spesso, mi chiedeva consigli, mi faceva complimenti, e una volta mi mandò anche dei fiori. Fiorai non ce n’erano tanti, in quella città assolata circondata dal deserto, ma lui trovò dei bellissimi fiori spinosi. Fiori del deserto. Somigliavano ai girasoli di Van Gogh. Torcevano gialli aculei come in un inespresso tormento. Parlava un italiano purissimo col suo fascinoso accento persiano, e voleva sapere tante cose. Ogni tanto una frase galante, ma sempre con un velo di pudore, sempre con sottintesi eleganti, un dire e non dire, e sempre la promessa finale di incontrarci, un giorno, noi due soli, per visitare un luogo insolito della città, un vicolo segreto del bazar dove si vendevano tesori rari, o forse, chi sa, anche per andare a casa sua. Abitava in una villa fuori città, credo con mamma sorelle e forse mogli, ex mogli o candidate mogli, ma aveva una specie di studiolo, dove si ritirava per lavorare in solitudine, quando non era sul set. "
" Una specie di garçonnière, insomma... "
" Bisogna che prima vi metta un po’ d’ordine ", diceva. Eh, sì, tra tante cose da fare! C’erano tante carte, tante foto, tanti libri, tanti copioni, in quel suo bugigattolo!
Una volta finalmente Bahmàn mi invitò a visitare con lui luoghi insoliti della città, anche quei quartieri nei quali nessuna donna penetrava : la Sciàr-e-now, la " città nuova " che proprio nuova non era, ma decrepita, fetida e fangosa. Era il quartiere dei bordelli, dove vivevano prostitute, aspiranti prostitute, ex prostitute diventate mendicanti, e lenoni di ogni specie, dall’aria sinistra che diventava minacciosa, quando un uomo accompagnato da una donna faceva perdere la speranza di un affare.
Ci aggirammo poi nel bazar, in tortuosi vicoli che solo lui conosceva. In uno di quei vicoli, strettissimo, c’erano solo mercanti nani, in bugigattoli minuscoli, che vendevano miniature. Sì, le solite belle miniature su piccoli fogli di pergamena che illustravano le storie d’amore che lui mi raccontava : Scirìn e Farhàd, Leyla e Majnùn, Bahràm e Golandàn. E a quelle storie che già conoscevo, aggiungeva particolari, situazioni, sentimenti che nè i poeti nè i cantastorie avevano mai immaginato. L’ultimo mercante, in fondo in fondo al vicoletto cieco, era ancora più piccolo degli altri , e gobbo. Vendeva solo miniature di smalto su madreperla, che rappresentavano coppie allacciate, scene d’amore : la fanciulla che offriva la coppa di vino al vecchio poeta, l’amante che guardava l’amata dormiente, Farhàd che oltrepassava un burrone portando sulle spalle l’amata Scirìn con tutto il cavallo... Volevo comprarne una, ma lui diceva che no, non erano abbastanza perfette. Me l’avrebbe trovata lui, e doveva rappresentare una storia nuova, mai vissuta e neppure sognata... "
" Alludeva? "
" Non lo so. Dopo, quando volli ritrovare il vicolo dei nani...ma non voglio anticipare... Un giorno, finalmente, mi invitò a casa sua... »
" Cioè nella garçonnière? "
" Sì, insomma, nel suo studiolo. Voleva mostrarmi dei libri sull’Italia ... "
" Variante della collezione di vasi cinesi. E tu ci andasti avvolta nel tricolore? "
" Il suo studiolo non era lontano da Sciàr-e-Now, in un intrigo di stradine che non avrei mai trovato da sola. Prima di invitarmi a salire Bahmàn si ricordò che non aveva nulla da offrirmi. Era l’ora di cena, ristoranti da quelle parti non ce n’erano. Passammo davanti ad un friggitore di frittelle, e lui ne comprò un cartoccio. C’era un pezzetto di giardino, lì accanto, quanto restava di una villa distrutta per far posto ad un grattacielo. C’erano un tiglio e una panchina, e lì ci sedemmo... "
" Roba da miniatura... forse quella che lui sognava di veder rappresentata sul guscio di lumaca... cioè, sulla madreperla smaltata : due innamorati, il cineasta e la poetessa, che mangiano frittelle sotto un tiglio. O era piuttosto una scenetta alla Peynet? Ma le frittelle? "
" Oh! Le frittelle! Erano piene di cipolle, mezze cotte e mezze crude, con aggiunta di sir e di mu-sir. Sir, vuol dire aglio, e mu-sir è un aglio speciale, di una pianta secolare, fortissimo, conservato nell’aceto... "
" Certamente con proprietà afrodisiache... "
" Afrodisiaco, forse, ma non ebbi modo di provarlo, ma puzzolente, certamente! Unto, e puzzolente. L’olio fritto mi colava a rivoli sul vestitino nuovo che avevo messo, scollato ma non troppo, e svolazzante... "
" E tricolore... "
" No, mi pare fosse bianco. Bianco e rosa... "
" Color cipolla... "
" E addio profumo di magnolia e gelsomino che con tanta cura avevo scelto per quella sera. Anche sulla sua bella camicia a righe sottili colava implacabile l’unto delle cipolle, e le sua mani erano tutte impiastricciate. Fui tentata di tornarmene subito a casa mia, ma Bahmàn mi disse che lo studiolo era lì accanto, che lì ci saremmo lavate le mani, e che...
Giungemmo finalmente: un cortile, poi un altro cortile con la vasca, poi un giardinetto, poi ancora un cortile, poi una scala, poi un lungo corridoio e in fondo in fondo, ornata da riccioli di pellicola – avanzi di un suo film di successo – una porta, e infine, il suo regno... "
" La garçonnière... ovviamente piena di divani, di letti, di dormeuses, di ottomane... magari con quadretti erotici alle pareti... "
" No, non c’erano nè letti nè divani nè ottomane, ma solo un lungo, lunghissimo tavolo ingombro di carte, foto, libri, copioni... Soprattutto tante foto, di tutte le sue attrici, aspiranti attrici, ex attrici, tutte alla rinfusa, sovrapposte, di prospetto e di profimo, vestite, velate o mezze nude, che mi sbirciavano – mi pareva – con occhi maligni. Due sedie ai due opposti lati del tavolo, e sul tavolo, allineate in un certo pittoresco disordine teste di polistirolo, tutte con parrucche, di tutte le foggie e di tutti i colori, corte, lunghe, alcuni con veli e turbanti, altre con spilloni, fili di perle e monetine tintinnanti. Tante teste bianche senza sguardo, senza naso nè bocca ; polistirolo espanso, bianco e leggero come neve, che reggeva lussureggianti chiome.
" Ci laviamo le mani – mi disse – vieni! ".
In un angolo una fontanella, di marmo, con un puttino che versava. Anzi no : che faceva il gesto di versare, perchè acqua non ce n’era.
" Ancora uno scherzo della padrona di casa – disse – mi ha ancora tagliato l’acqua. E’ maledettamente gelosa... una vecchia zitella che vorrebbe fare l’attrice. E per dispetto mi chiude l’acqua o la luce. Scenderemo in giardino a lavarci le mani. E intanto prendi questo! ".
Mi porse un telo di lino, tutto ricamato a fiori e uccelli.
" Mi dispiace – dissi – tutto quest’unto di cipolle su telo così bello? "
" Non importa, è già servito in un film. "
Faceva freddo, ma la zitella aspirante attrice aveva anche tagliato il gas e i termosifoni erano gelidi. Rimaneva un aladdin, una di quelle modeste stufette tubolari a petrolio, che usano i persiani poveri, che della magica lampada della storia hanno solo il nome. Bahmàn cercò di accenderla, spirali di fumo avvolsero le chiomate teste di polistirolo, e l’odore di petrolio cercò di mascherare la puzza di cipolle che ci emanava dalle nostre mani, dai nostri vestiti, dal nostro alito. E gli occhi lacrimavano.
Anche gli occhi delle attrici, delle ex attrici, delle aspiranti attrici sembravano lucidi di lacrime, e mi guardavano dal tavolo su cui erano appoggiate le loro fotografie, dalle pareti dove erano appuntate :con astio, con invidia, con pietà, con ironia. Le teste di polistirolo, senza volto come i santi nelle pitture popolari persiane, non minacciavano, nè promettevano nulla.
Mi feci chiamare un taxi, e me ne tornai a casa. Mi accompagnò attraverso il lungo corridoio, poi giù per la scala, poi nel cortile, il giardinetto, un altro cortile con la vasca... Non disse nulla. Quando arrivai a casa mi spogliai del vestito...
" Ricordo bene: bianco e rosa, color cipolla... "
" Per toglierne l’odore delle frittelle e le macchie di grasso... ma il vestito aveva di nuovo l’odore di magnolia e gelsomino e le macchie di unto non c’erano più. "
" Però ti rimasero nella penna, le cipolle... Ci sarebbe da farne uno studio. Ogni tanto ne tiri fuori una:

Vorrei, sì, qualche volta,
essere solamente una cipolla
rosea, con la treccia bionda,
sfogliarmi, spogliarmi
dei sette veli della seduzione,

mettere a nudo il cuore,
farti piangere, una volta almeno,
per andar poi raccontando in giro,
che hai versato per me
lagrime di passione. "

Oh! Cipolle fatali!
" Seppi l’indomani che era partito per studiare in un paese lontano i luoghi per un film. "
" Col suo seguito di attrici, ex attrici, aspiranti attrici... "
" O forse solo in cerca di una testa con occhi naso e bocca. Oppure occhi naso e bocche in mezzo a una faccia... il che fa lo stesso.
Poi andò in un altro paese, ancora più lontano. Tornò il Italia, ma io non c’ero; tornò al suo paese, ma io ero in viaggio. Da ogni luogo, dai paesi lontani, mi mandava cartoline, sempre cartoline. Tante cartoline. Solo cartoline...
Volevo comprarmi una miniatura di madreperla, ma invano cercai il vicolo dei nani. Nessuno ne aveva sentito parlare".

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6.2.07

La piazza 

posted in Voci -by Gianni per gentile concessione a LucaniArt
di Gianni Mazzei
Come dal piombo essi traevano responsi…

“La piazza? E’ certo un luogo fisico, centrale, ma con caratteristiche diverse e con cambiamento di funzione a seconda del tempo e della cultura di un popolo. Come pure con diversità di ubicazione. Vedi qui: questi massi erratici ora non ci dicono niente o possono servire ai miei operai per arginare il terreno o segnare il confine; nel passato probabilmente erano il cuore di una piazza, i dolmen in un’altura come questa dove si elevavano sacrifici agli dei o si adorava il dio sole.
O osservi la piazza che tu conosci: prima è quella davanti alla Chiesa-madre, delimitata dal campanile e dal palazzo dei Principi… Essa dilata la sacralità delle funzioni, celebrate, nell’odore dell’incenso che si espande e nella rotondità della parola salvifica, escludendo ogni altra attività e manifestazione. Se ricordi, il mercatino rionale, con la vivacità delle verdure, la puzza dei pesci coperti da sciame di mosche, avveniva fuori dal sacro recinto, sotto gli archi, per non inquinare il potere divino…”
Cammina, raccogliendo qualche frutto caduto dagli alberi, con dietro il maestro che è andato a trovarlo.
“Ecco” - continua, gesticolando - “è una questione di potere, di trasmissione che crea, a volte, come nel tuo paese, anche una filiazione fisica, una successione spaziale che rispecchia quella temporale.
Alla piazzetta della Chiesa, ormai deserta, preda di gatti randagi, subentra a pochi passi la piazza centrale, tra l’imponenza del castello e i palazzi di cui tu parli. Sempre animata, sempre invidiata, sempre temuta non solo nelle grandi occasioni, dal mercato alla processione del santo patrono al comizio fino alle manifestazioni di massa: anche la quotidianità ha bisogno della sua identità, del suo sfogo che avviene in piazza, come un marchio di autenticità o un umore marcio che lì si secca e consente così una vita recuperata e sana. Col tempo, forse, la piazza si sposterà in quell’altro luogo vicino, ora adibito a fiera, a parcheggio.
O forse, per la piazza cambierà totalmente il modo di essere, in una società, come la nostra, che elimina la diversità a favore della globalità, elimina il singolo, estraneo così alla fisicità ed emotività dei suoi simili, per navigare in rete… Sarà la rivincita del tempo che, a dispetto della sua precarietà, annullerà lo spazio, rinsecchendosi in un unico buco nero, la televisione o internet. Ma sempre piazza sarà e sempre indicherà potere…”
“O contro-potere” - fa il maestro, raccogliendogli gli occhiali che erano caduti, evidenziando così una benda. “Sai, ho dovuto fare un’operazione all’occhio sinistro, per recuperare la visibilità laterale” dice, facendo brillare l’altro occhio, mobilissimo e ceruleo.
“Contropotere, potere: non c’è molta differenza. Cambia la prospettiva soltanto, la piazza resta identica. Sia se la folla parigina uccida o inciti alla decapitazione del re, sia se gli studenti fermino i carri armati a… Ciò che viene subito dopo non è altro che un assestamento tellurico dello sfogo terrestre che ha già disegnato i suoi meccanismi, i suoi momentanei protagonisti, le sue falsificazioni, i suoi vinti e i suoi vincitori…”.
E’ la prima volta che capita al maestro, su insistenza dell’amico, di ascoltare questo guru della cultura.

(stralcio tratto dal romanzo inedito "La piazza", capitolo II° )
Gianni Mazzei è nato e vive in Calabria dove insegna Storia e Filosofia nei licei. La sua massima aspirazione è diventare “ un cattivo maestro” come Socrate. Il suo daimon, però, non lo sconsiglia di interessarsi di politica, che considera un dovere, specie al Sud, dell’intellettuale, al servizio della collettività.
Ha pubblicato: saggi (Politicamente polemico, Mimmo Zappone, giornalista, Storia di un’interna contestazione, dittico), poesia (il rumore del nulla, balbettìo d’eterno, l’errore non rettificato, di là dalla siepe, ricordo di ogigia col pseudonimo Linciu), romanzi (in exitu Israel,Speculum, Io, Giulio, La piazza). E’ in corso di stampa il saggio “Il tallone di Edipo”, come ricerca dell’identità occidentale. Hanno parlato di lui: B. Squarotti, Selvaggi, Piromalli, Sessi, Lauretano, Tedeschi, Bruni, Mangone, Vincenzi.

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23.1.07

Imbroglia il tempo 

postd in Voci -by Rosario per gentile concessione a LucaniArt

di Rosario Castronuovo

Fai la porzione ai vicini, ai parenti
nei giorni grassi, ed a chi non ha niente

parole, pietre, pietrisco, polvere
aria tra i denti, sprecano parole inutili
parlano nasando, copiano l’America

parole che umiliano, uccidono dentro
offendono, sull’asfalto seccano macchie
candide d’innocenti piegati e soli

trascinano macigni d’indifferenza
e vince sul suo campo il diavolo,
le vittime sono fratelli e genitori

le porte sbattute sul naso il segno
shoah del duemila vola
nell’aria infetta da nord-est

disinfettano tavoli e treni del sud
invidiano colore e sorrisi, tuona
l’organo e il dolore lacera pensieri

imbroglia il tempo, scappa senza dircelo
cambia il palcoscenico


(testo inedito)

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10.1.07

Gli anarchici 

posted in Voci -by Carlo per gentile concessione a LucaniArt

di Carlo Calza

Alessio G. punito per la sua acclarata militanza anarchica , a quaranta anni, aveva dovuto lasciare l’Emilia per la Basilicata.
Fu mandato ad insegnare in una scuola di montagna, in una zona tra le più impervie e pressoché irraggiungibile durante i mesi invernali.
Il primo ottobre raggiunse la sede: un villaggetto posto su un altopiano di argille franoso, da un lato a strapiombo su un ampio e profondo vallone, riarso dai soli estivi, ingiallito dalle stoppie aduste, con rari mandorli e qualche ulivo saraceno che ostentava alla luna le sue drupe verdi, lucide, ancora acerbe.
Le case distanti l’una dall’altra, collegate da sentieri che le piogge trasformavano in abbondanti rigagnoli.
Per raggiungere il paese occorrevano più di due ore. Il sentiero, in parte nel bosco, per lunghi tratti si snodava per balze rocciose e c’era l’Acqua nera da guadare: un torrente all’apparenza innocuo, in magra lento e a tratti melmoso, ma brutta bestia se diventava cattivo con le sue piene improvvise. Si diceva in giro che pure le serpi assetate, se ne rimanevano a distanza.
Una volta aveva travolto un contadino, l’asino su cui era a cavallo e la capra legata al basto. Li trovarono senza vita, impigliati a valle tra i rovi della stretta.
La scuola: una stalla per buoi, sgombrata e ripulita alla meglio, semibuia anche a mezzogiorno, fornita di sedie spagliate e tavolini sbilenchi.
Al piano superiore l’alloggio del maestro: uno stanzone, collegato all’aula da una scala a pioli. Una branda, un tavolo con due sedie, un bacile sul suo sostegno di ferro arrugginito ne costituivano l’arredamento.
Il fumo di decenni ne aveva annerito le pareti fino al punto da rendere inutile ogni tentativo di biancheggiarle. Al centro un’enorme camino fuligginoso ai lati del quale due finestre sgangherate con i vetri appannati da una patina grigia di decenni tentavano di far filtrare un po’ di luce.
Nella strada, a un paio di metri dalla porta di ingresso, sotto una tettoia di tegole una sorgente di acqua potabile.
In due mesi, il maestro si era visto in paese due o tre volte. Era venuto giù di domenica per comprare il necessario, evitando ogni incontro.
E ritornò anche il giorno dell’Immacolata.
Dopo aver fatto le solite compere: viveri, sapone, fiammiferi, sigarette, si fermò dal barbiere per mettere in ordine capelli e barba.
Se ne stette per tutto il tempo in perfetto silenzio, sicuro che in paese nessuno sapesse della sua vicenda.
Invece, appena uscito dal salone, gli si accostò un signore alto, magro, elegante nel cappotto nero doppio petto, con la barba folta e curatissima, occhiali pinces-nez, catenina di argento a reggere l’orologio che gonfiava il taschino sinistro del gilè e cravatta a fiocco di seta nera.
“ Che freddo stamattina, signor maestro, che ne dite di prendere una tazza di cioccolata calda al caffè qui di fronte ? Mi fate l’onore di accettare ? ”
Alessio dapprima restò interdetto, quindi gli porse la mano:
“ Sono Arnaldo Terranova…il sarto del paese, ho il mio laboratorio là, in fondo alla piazza “ e indicò con l’indice della sinistra un portoncino verde, quindi si avviò con passo spedito verso il caffè, riparandosi le guance con i baveri del cappotto,
“ Mi chiamo Alessio .” rispose il maestro, mentre lo seguiva , calcandosi il cappello che il vento tentava di portargli via.
Entrarono, occuparono un tavolo nel fondo, Arnaldo ordinò la cioccolata quindi, sottovoce, passando subito dal voi al tu:
“ La penso come te. Di te so tutto, d’altra parte, in paese, tutti sanno chi sei e perché dall’ Emilia sei venuto a finire in questo purgatorio, per non dire inferno. Ma non preoccuparti, non sei solo.”
Alessio non seppe cosa rispondere, riuscì a dire solo “ Grazie ! “ tra un sospiro e un altro.
Si alzarono dopo poco, Arnaldo pagò e sulla porta del caffè, battendogli la mano sulla spalla, riprese: ” Se avrai bisogno, vieni a trovarmi, compagno!.”
Alessio ringraziò di nuovo e, dopo una lunga stretta di mano, prese la via del ritorno.
Arnaldo lo seguì con lo sguardo fino a quando sparì dietro l’angolo della chiesa.
La vigilia di Natale, a metà mattina, mentre si preparava ad uscire, Arnaldo sentì bussare piano alla porta, un colpetto quasi impercettibile. Aprì, era Alessio.
“ Ciao, entra ” e se lo tirò dentro richiudendo subito la porta.
“ Ciao Arnaldo ”.
Il vento gelido di quel giorno non consigliava di tenere aperta la porta neppure per un istante.
Entrarono nel laboratorio, Alessio si gettò su una poltrona stanco e infreddolito e girò gli occhi intorno: un ordine impeccabile regnava dovunque.
Un Crocifisso di legno scuro che pendeva dalla parete di fronte alla porta tra le due finestre attirò la sua attenzione. Si fermò a guardarlo per qualche secondo.
“ Te ne meravigli ? Sono anarchico come te, perché come te non credo nel disinteresse di chi governa, nelle leggi della moderna economia, nell’onestà dei più, specie dei potenti, ma credo in Lui, perciò ti do il buon Natale, buon Natale Alessio ”.
“ Anche a te: buon Natale , Arnaldo.” E si abbracciarono.
Ora lo sguardo di Alessio si era girato verso una tendina di cotone fiorata che nascondeva dal soffitto al pavimento l’angolo destro in fondo alla stanza. Al centro vi era cucito un foglio di carta da disegno, sul quale, in rosso sgargiante, era scritto in caratteri stampatello: QUI - RINALE. “ E’ l’angolo riservato a me ”. Spiegò Arnaldo ridendo, e rise finalmente anche Alessio e di cuore.
Tutto il magone che si portava dentro da tre mesi come d’ incanto stava scomparendo.
Rimasero insieme tutto il giorno, chiusi in casa, parlarono, parlarono tanto e la sera cenarono, brindarono alla vittoria anarchica, al fulgido avvenire dell’umanità che poteva solo tardare, ma non mancare.
Non era prudente riprendere al buio la via del ritorno e Alessio rimase anche la notte a casa di Arnaldo. Si coricarono, ma non dormirono. Parlarono, parlarono ancora e le prime luci che filtrarono dalle fessure delle imposte li sorpresero ancora in conversazione.
Dopo il caffè, si salutarono e Alessio ritornò ritemprato al suo stanzone freddo e affumicato.
A gennaio nevicò molte volte e ad Alessio non fu possibile tornare in paese.
Ai principi di febbraio, come capita sovente nei paesi, cominciò a circolare, segreto di tutti, una voce che doveva confermarsi veritiera.
Una sera, dalla corriera scese un signore anziano, bene imbacuccato, ma visibilmente infreddolito, con ombrello e borsa di cuoio che chiese subito di una buona locanda.
Qualcuno lo accompagnò alla sola esistente, dove prese alloggio.
“ Solo per questa notte” – specificò all’albergatore - e che il letto sia comodo e la stanza riscaldata. Tra un’ora cenerò, qualsiasi cosa andrà bene, purché sia bollente. E per domani mattina presto, avrei bisogno di una cavalcatura. Una mula quieta, condotta da qualcuno che sia pratico dei luoghi. Mi raccomando. ”
“ Certo! Qui in paese di mulattieri pratici della zona ce ne sono quanti se ne vogliono, non vi preoccupate me ne occuperò io “ assicurò l’albergatore.
“ Per il compenso, pagherò quanto mi sarà chiesto ” riprese il forestiero, mostrando tutto il suo ispido rigore.
Si ritirò quindi nella camera indicatagli dalla cameriera e, dopo un’ora, puntualmente riapparve nell’ingresso, visibilmente rinfrancato.
L’albergatore gli andò incontro, lo accompagnò in sala da pranzo al tavolo già apparecchiato e lo assicurò che l’indomani mattina un mulattiere sarebbe stato a sua disposizione con una mula, la più fidata. Gli servì la cena e si ritirò in cucina richiudendo la porta.
Il forestiero restò solo e iniziò a cenare con lo sguardo fisso nel piatto, come lo trovò alla frutta Arnaldo, avvolto sempre nel suo cappotto nero.
“ Buonasera, ho qualcosa di importante da dirvi, di molto importante – gli disse avvicinandosi al tavolo - Permettete ? ”
Il forestiero alzò gli occhi restando fermo con la forchetta tra le dita.
“ Sono Arnaldo il sarto, l’unico amico del maestro emiliano qui in paese ” .
E tirò la sedia che stava di fronte al forestiero. La girò con la spalliera verso il tavolo, la inforcò a cavalcioni, si sedette e, guardandolo fisso negli occhi, anche se nella sala da pranzo non c’era anima viva oltre loro, con un fil di voce continuò :
“ Voi siete un ispettore scolastico, so perché siete venuto, siete venuto per recarvi domani mattina nella scuola di Alessio per procedere ad una ispezione e redigere comunque un verbale negativo, ma tanto negativo, da poter giustificare il suo licenziamento ”.
Il forestiero cominciò a guardarlo con apprensione.
“ Vi consiglio di non andarci – continuò ancora il sarto - Alessio sa che qualcuno vuole fregarlo definitivamente ed è male intenzionato. Non so, ma forse avete moglie… figli… La scuola si trova in una zona isolata, lontana da Dio e dagli uomini, la poca gente che vi abita domani mattina sarà al lavoro “.
Arnaldo diventava sempre più rosso in volto. E dandogli ora del lei in segno di sfida :
“ Accetti il mio consiglio, non ci vada ! ”
Poi, ficcandogli negli occhi il più terribile degli sguardi, si alzò e mentre rimetteva a posto la sedia, senza permettergli di dire una sola parola, gli disse ancora :
“ Non ci vada ! Non ci vada ! ”
Si riabbottonò il cappotto e andò via in silenzio come era venuto, soddisfatto della più grossa bugia della sua vita.
Trascorse la notte.
Al mattino il mulattiere era pronto all’appuntamento. II tempo minacciava pioggia, ma sprazzi di sereno pure apparivano e sparivano tra la nuvolaglia.
Il forestiero uscì dalla camera, andò incontro all’albergatore che già sfaccendava da tempo e pagando il conto gli disse:
“ Vista la cattiva giornata, ho deciso, di soprassedere al sopraluogo che avrei dovuto fare, ritornerò un’altra volta. E a voi - rivolgendosi al mulattiere – quanto devo per il disturbo ? “
“ Ma figuratevi, niente, niente, arrivederci ”. Il mulattiere andò via e il forestiero, tornato al tavolo dove la sera precedente aveva cenato, sorbendo lentamente un cappuccino, attese la corriera.

*

Carlo Calza vive a Chiaromonte (PZ). Si occupa di ricerca storica, di poesia e narrativa.

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31.12.06

L'officina del padre 

posted in voci - by Mariano per gentile concessione a LucaniArt

di Mariano Lizzadro

I fiori e l’odore di betulle
sulla strada di Betlemme
nell’officina del padre
si forgiano stampelle
di legno avvitate da chiodi
un bambino sussurrando chiede
dell’acqua ricevendo un colpo
sul naso e sangue per terra
presagio di un triste destino
annunziato da un angelo
tanta sofferenza e dolore
cominciati dalla filiazione
nell’officina del padre
di una giovane madre
con un vecchio falegname
povertà sacrifici stenti e fame
e subito in fuga verso l’Egitto
per salvarsi dall’infausto editto


(testo inedito)

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28.12.06

La mia religione 

posted in Voci - by Gina per gentile concessione a LucaniArt

di Gina Labriola

Era di odori e di suoni
la mia religione.

Ero forse io il bambino nudo
tra le braccia di Maria?

Mia madre era bella e bianca.
Vestita di chiffon azzurro
cercava in cielo messaggi di comete.

Tra le mani affusolate di mio padre
fioriva come un giglio
la penna stilografica.

e il pastore c’era davvero:
si chiamava Vincenzo
portava zoccoli di legno
suonava la zampogna
la pelle,
era quella della capra
che mi aveva dato il latte
munto davanti alla mia porta.

La paglia
era quella delle mie campagne,
il muschio era cresciuto
sulle querce di Vertunno.

In chiesa,
c’era odore d’incenso
di sudore e di formaggio.

La neve era vera
si ammucchiava sui tetti,
e mia nonna col vincotto
mi faceva il sorbetto.

Maria dalla faccia tonda
faceva soppressate di maiale
le asciugava al fumo,
ghirlande in prosa, sul camino,
mentre mia madre aspettava i Magi
neri su cavalli bianchi.

Natale di odori.
La frittura di anguille,
il capitone ed il mistero.

Natale di mia nonna
delle sue preghiere.
Mi addormentavo
al ritmo delle litanie.

Ha portato via, mia nonna,
nelle cocche del grembiule
che odorava di origano e di menta,
col significato delle sue preghiere,
tutta la mia religione.

Non cresce più il muschio
sulle querce di Vertunno
per il mio presepe
la paglia è di carta,
il bambino è di creta.

I cavalieri bianchi e neri di mia madre
si sono inabissati nella notte.
La cometa dei miei anni
ha ghirigori d’oro
ghirigori neri,
ma non splende in cielo
come quella sera.


(testo inedito)

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17.12.06

Gli zampognari 

posted in Voci -by Teresa per gentile concessione a LucaniArt

di Teresa Armenti
La magica e melodiosa atmosfera del Natale
Era il suono delle ciaramelle ad annunciare il Natale l’8 dicembre, giorno di preparazione del presepio. Era un suono dolce, melodioso. Veniva da lontano e, man mano che si avvicinava, diffondeva nell’aria un’atmosfera di magica attesa. Eccoli là, per strada: con il loro incedere lento, solenne, quasi sacerdotale, il cappello a larghe falde ben calcato sulla testa, il mantello nero, a ruota. Erano in due: uno suonava la zampogna, che teneva stretta stretta al petto, e l’altro l’accompagnava con il piffero, avanzando a passi più leggeri. Invitati, entravano e si fermavano davanti al presepio. I cappelli neri scomparivano ed apparivano i bianchi capelli. Le gote incavate si gonfiavano, le palpebre allungate si ritraevano, le rughe si avvicinavano, i baffi si drizzavano, il naso diventava ancora più rosso. Tutto il loro fiato andava a finire nel bianco otre che sprigionava un suono…di favola. Osservavamo, in religioso silenzio, i movimenti agili delle grosse dita, i pantaloni di fustagno, gli scarponi impregnati di sevo, che accennavano a passi di danza. Gli zampognari portavano con sé l’odore della montagna, che sapeva di resina e d’incenso. Essi ci avvolgevano nel loro ampio mantello, nel loro suono misterioso che andava diritto al cuore e non ci lasciava. Ci trasportavano in un mondo magico, dove regnava solo l’amore. Scomparivano d’incanto i bisticci, le amarezze, la solitudine. Prendeva posto la Speranza. Gli zampognari, dopo aver finito, si asciugavano con mossa repentina le labbra, che si aprivano a un sorriso natalizio, accettavano l’offerta, si rimettevano i cappelli e scomparivano, lasciandosi dietro l’eco delle loro note. Venivano dalla montagna. Erano pastori che, a dicembre, si trasformavano in suonatori, scendevano a piedi lungo i tratturi, attraversavano vie e vicoli, entravano nelle case, annunciavano a tutti il grande Evento con un semplice suono. Anche a Castelsaraceno, paese di pastori, c’erano gli zampognari. Erano in tanti. Acquistavano i “suoni”, come venivano chiamate le cornamuse, a Viggiano e li usavano non solo a Natale ma in ogni altra ricorrenza religiosa o civile, andando, nel mese di dicembre, anche nella zona ionica. L’ultimo zampognaro di Castelsaraceno, Prospero Iacovino, vecchietto arzillo, che si dedicava con maestria anche ad intagliare il legno, ha allietato i nostri Natali di dolce melodia. Ora le sue zampogne sono appese in un vecchio magazzino e soffrono di malinconia.

Teresa Armenti vive a Castelsaraceno (PZ). Studiosa di storia lucale ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggi. Collabora con i suoi interventi al progetto LucaniArt.

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8.12.06

Ho riti fermati alle tue parole 

posted in Voci -by Gigia per gentile concessione a LucaniArt

di Maria Luigia Iannotti

Ho riti fermati alle tue parole
un paio di scarpe che valgono tempo
capelli senza forma e moda
Astrazioni in accumuli di corpo
La fragola nel vaso
ha il sapore del verbo amare
ma non ha colpa
Il mio cercarti è cuore di volatile
sperduto
che batte e ribatte contro i vetri
corso dall'incontro
spezzato dall'urto
caduto nel fondo
della pupilla di un gatto


(testo inedito, 2003)

Maria Luigia Iannotti (Trecchina 1978) ha pubblicato Radici di vento (Ed. Il Coscile 2003) ed è uno dei collaboratori del progetto LucaniArt.

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