20.6.06

Frammenti 

posted in Voci - by Canzian per gentile concessione a LucaniArt

di Alessandro Canzian

FRAMMENTI

Ma non per sempre,
non dura eternamente
il non essere, il male.
M. Luzi


Macera il cielo contro un ceppo
di cirro, sterrato, tracima
al piccolo uccello senz’ira
che se ne parte dal vigneto.
Tornerà, poiché tutto torna
alla memoria del Padre.


FRAMMENTI

Cos’altro era il cane al tuo braccio
se non scheggia di vita
-di pioggia sparuta, di luna
che presagivi a venire-, una notte,
un falso orizzonte
d’uomo o guerra che sia.
***
Della mia infanzia ho il ricordo
d’una spilla arrugginita,
e d’un ragno di ramaglie
alla deriva –eri tu
la troppo assolta-, e d’una vita
come colpa, troppo mia.
***
Una schiuma di sera sciaborda
in nebbia di fari, in tronchi
agglomerati ai tuoi sguardi,
come storia di uomini sfatti.
La vita è principalmente attesa,
da questo esilio il Dio.

***
Ma l’uomo cos’è? La querela
in fondo è sempre questa: può essere
l’uomo simile ad un carro
macerato da uno sguardo? –frattanto
la scheggia d’un gatto salta
contro il muro d’una notte-.
***
E nel gesto attonito d’esistere
una stufa accesa riscalda
appena il vuoto che ci riempie
-non che l’atto possa salvarci
nella sua breve cecità
d’una notte senza parole-.
***
Uno scorpione smorto scorre
come nulla fosse, un gatto
s’attorce alle sue ombre -forse
a quelle meno vuote-, un nudo
dal muro sperde le sue ore.
In questo silenzio, la vita
è un male già troppo necessario.


VERSI ILLUSORI

Pare impossibile che di te resti
meno del tutto, dice il poeta.
Un insetto radente sull’acqua,
qualche fascina
di peli, pochi resti insomma.
Eppure la memoria non basta,
quieto l’insetto si rinserra.
***
L’istante che di te mi sovviene
più caro, fu quando
con un cenno della mano togliesti
quel capello dal mio cielo.
“È mio”, divertita dicendo.
Presagendo che il tempo
non è che un difetto
tra le pieghe d’un bacio.
***
Spesso mi chiedo perché scrivo,
perché spero di lasciare
una così labile
ombra di me. E sorrido.
Sorrido di quell’amaro sorriso
di chi ha un grande vuoto dentro.
***
Vana infine ma delicata e gentile
la tua immagine mi torna
tra la neve e la pioggia. Ascolta
teso l’orecchio il gatto
il tonfo che più non romba.
Tornasti un giorno ed io t’amai
come s’amano le rose
d’un giorno terribile.


FRAMMENTI

Il giardino che dietro la casa
ghiacciava un poco tra i radi
filari di neve
e i cachi -distanti-, m’era
una chiara immagine del male.
Un gatto che oltrepassa le scaglie
d’una siepe, sospinto dalla fame.
***
Questa vita disserrata ha il senso
della cagnetta smagrita che a lato
della casa s’avvolge
di gelo ogni notte.
E che a un piccolo straccio s’attorce
come se fosse il suo mondo.
***
La crepa sul muro che divaga
nella stanza
ove tanto soffrimmo -perché la vita
è da sempre sofferenza- ritorce
se stessa alla mia sera.
E fa il mio cuore questa scheggia
che si spegne sulla cenere.
***
L’orologio che mi regalasti lo misi
tra le cose che non rividi
più -sebbene l’avessi
per tutto il giorno al polso-.
Tale è la vita. Nemmeno la grata
del cuore vi sfugge.
Piano anche il tutto si stinge.
***
S'incaglia una pioggia tra le scaglie
d'un insetto che risale
una cattiva primavera. Il sole
non è che il vuoto d'un ricordo
incancrenito dentro il corpo. Il mondo
un lampione sullo sfondo
d'un infinito inverno ancora.

Alessandro Canzian, nato il 05/09/1977 a Pordenone, attualmente vive e lavora a Fanna (PN). Ha pubblicato CHRISTABEL con le EDIZIONI DEL LEONE e LA SERA, LA SERRA in autoproduzione con la tipografia Mazzoli. Attualmente sta lavorando a FRAMMENTI, terzo e ultimo capitolo di un'opera che vedrà includere i due libri già editi. Nei primi mesi del prossimo anno avvierà un'attività editoriale dal nome SAMUELE EDITORE. Il suo sito internet Alessandro Canzian

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17.6.06

Zio Raffaele frittolo e la passata del fico 

posted in Voci - by Rosario per gentile concessione a LucaniArt

di Rosario Castronuovo

La salita impegnativa era corta, e dopo un poco finiva in uno spiazzo che dava su un campo in leggera pendenza, che aveva ancora i graffi dell’aratura dell’anno prima. Sul lato c’era un sentiero fiancheggiato da una fila di querce e sotto ad una di queste, che sembrava più grande delle altre, una fontana.
Alla fine della fila di alberi, c’era una casa bianca dipinta a calce con una porta piccola, verde scuro, chiusa per mantenere l’interno all’ombra e quindi al fresco. Sull’uscio un uomo seduto ad una sedia bassa che da lontano era una macchia nera con il cappello. Sul vestito si notavano le strisce bluastre che il sole rifletteva sul velluto nero. Al suo fianco, in piedi appoggiata all’ombra dello stipite della porta, una ragazzina, che ad occhio poteva avere intorno i dodici anni, vestita con abiti moderni dai colori vivaci.
Quando i tre giunsero alla fontana l’uomo seduto fece dei cenni lenti, ma significativi, affinché si fermassero per non spaventare qualcuno. Giuseppe e la compagna sospettarono che ci fosse in giro un cane pericoloso. Capitava spesso che i contadini che abitavano in campagna, perché castigati da furti e prepotenze, tenessero liberi uno o piu cani di grossa taglia che avevano incattivito, tenendoli alla catena e addestrati a mordere gli estranei quando mancava il padrone. Si sedettero al muretto vicino alla fontana e la mamma strinse ancora piu forte il bambino al petto.
Notarono che il vecchio e la ragazza stavano perfettamente immobili, mentre il vecchio teneva in una mano il capo di un filo che finiva a cappio sull’orlo di un piatto pieno di latte. A breve, ad una decina di metri da loro, nella scarpata incominciarono a muoversi dei fili d’erba come un’onda, un segno che si dirigeva verso il vecchio, fino a quando uscì pigro ed indolente allo scoperto, un grosso cervone. Era un serpente lungo più di due metri e si avvicinò alla ciotola per bere. Fu in quel preciso istante che Zio Raffaele, mentre si alzava dalla sedia, tirò di scatto il filo. Alzando le braccia sollevò il serpente che quasi non si ribellò, come se accettasse la situazione e lo appese ad un ramo del pero dietro casa.
Il vecchio allora fece segno alla famigliola di avanzare, ed una volta vicino, Vito gli chiese "siete voi Zio Raffaele quello che fa la magia per far passare l’ernia ai bambini?". "Così dicono" rispose il vecchio. Zio Raffaele stava seduto al sole, un vestito di velluto nero ed un cappello in testa. Uno di quei cappelli classici, quelli che erano abituati a portare le persone di una certa età e con cui si erano costruiti un personaggio. Sotto la visiera due fessure orizzontali. Occhi che tagliavano l’aria e l’anima di quelli che miravano. Ogni tanto da quel buio profondo spirluceva una scintilla, quasi a far vedere che dietro c’era un fuoco vivo. Giuseppe, incuriosito, e per prendere confidenza, ascoltave la sua voce e per cercare di intuire di che personaggio si trattasse, chiese cosa ne doveva fare del cervone. "Il serpente mi serve perchè, domani a mezzogiorno, quando il sole è alto e quindi fa abbastanza caldo per riuscirci meglio, devo alzargli la pelle dal dorso e prendergli un poco del grasso che ha sotto. Avrei potuto ucciderlo, ma non mi piace e non mi sembra giusto. E poi da morto, il grasso non me lo dà volentieri, perché si irrigidisce e si raffredda. Invece così quando è ben caldo, taglio la pelle sul dorso, gratto il grasso e lo lascio libero. Lui in piena forza e con l’aiuto del sole rimargina la ferita. Questa, oltretutto è una creatura magica ed ingorda di latte. Si racconta che di notte, nelle notti calde d’estate, quando le case erano piene di buchi, perché fatte di canne, tavole e terra impastata, si infilava lentamente, senza far rumore, nel letto delle donne che allattavano e rubava il latte dalle loro mammelle. Per non farsi scoprire, a causa del bambino che presto avrebbe pianto non trovando la mammella, beveva dal seno e infilava la punta della coda nella bocca del neonato. Perfino allora, se scoperto, veniva spaventato ma non ucciso, perché portatore di abbondanza.
Durante le sere d’estate, tante volte veniva sorpreso dal gualano -abile nella cura dei buoi, delle mucche, e nell’aratura- nello spiazzo all’aperto, usato come ricovero per gli animali, che beveva a garganella dalle mammelle delle mucche. Al mattino, quando il gualano andava a liberare le mucche per condurle al pascolo, stava molto attento che gli animali non lo calpestassero e che non gli fosse fatto del male. Se questo fosse successo, la ricchezza di cui era portatore, se ospitato e accudito, si sarebbe tramutata in sciagura. Ho conosciuto una famiglia che grazie alle sue frequenti visite è diventata ricca e fortunata.
Io gli prendo solo un poco di grasso, il necessario, perché domani mattina viene a trovarmi una persona che non riesce a risolvere i dolori alle spalle. I reumatismi lentamente lo stanno incurvando e i medici lo hanno congedato. Dicono che è la vecchiaia e non riescono a farci niente perché è troppo tardi. Se non gli do una mano, sarà costretto a camminare guardando a terra per il resto della sua vita. Il grasso lo sciolgo in un goccio d’olio e glielo spalmo sulla spalla.”
(un inedito di Rosario Castronuovo per LucaniArt tratto da "Zio Raffalele frittolo e la passata del fico)

Rosario Castronuovo è nato il 13 maggio 1950, a Teana (Potenza) dove ha vissuto fino al 1991. Rifare il percorso dei genitori, rimanere soli con i figli lontano faceva paura. Così decise di partire approdando in un’isola felice: l’Emilia Romagna, dove si sente a casa sua. Vive a Fiorano Modenese, incontra poeti e frequenta circoli, recita poesie. Sta imparando a dipingere. Ha pubblicato le raccolte “Il figlio di Giovanni” nel 2001 e nel 2005 “Almeno torni il vento” che rappresentano un omaggio alla sua terra. Molte poesie sono pubblicate su antologie e riviste letterarie, ottenendo recensioni significative.

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9.6.06

A volte tornano 

posted in Voci - by Bustrófedon per gentile concessione a LucaniArt
di Bustrófedon
A volte tornano, di preferenza all’imbrunire o di notte, che è più facile confondersi, ombra nelle ombre. Se fosse d’intonaco o pietra, di coppi o davanzali, se fosse con gli scuri chiusi e il camino acceso, abbraccerebbe, allora, il profilo contro il cielo di stelle e ne riconoscerebbe la boa nel girovagare di nubi scure e veloci. S’attarderebbe a camminare ai confini, tra ghiaia e erba, fughe notturne, baci e la ramazza a raccogliere le briciole di una pagnotta spezzata in fretta, presterebbe orecchio alle voci del mattino o della sera, alle risa, ai pianti, al silenzio della calura al meriggio e s’assetterebbe su una pietra, un marciapiede, una scalea a far rosario dei ricordi. Se fosse di vigna o filare, di tinaia o corte, userebbe le mani come aratro a ritrovar ciò che fu perso a dissetar la terra invece che gli uomini, seguirebbe il rigagnolo giù fino allo svolto della strada, là dove le vecchie doghe riposano in attesa del fuoco, e giocherebbe coi tralci a far trecce come quelle fatte e disfatte a lei, nell’arsura dei pomeriggi di vendemmia, tra l’andirivieni di bigonce e schiene curve. Se fosse di pelle e sudore, di un corpo esile e perduto, se fosse di gambe aperte e cuore chiuso, traccerebbe sulla polvere il segno del suo seno e tratterrebbe il respiro per averne ancora uno, suo, e calda saliva tra i denti. S’inginocchierebbe, allora, sull’asfalto nero come ai piedi di un letto sfatto, scosterebbe le coltri dei giorni e appoggerebbe le labbra sulla brina dei mattini persi e sulle risacche di notti senza luna e sonno, berrebbe di lei e di sé, senza appagar altra sete che non sia di preghiere blasfeme e di corpi estranei.Se fosse di passi e chilometri, di strade percorse e piazze per fermarsi, se fosse di uno scafo di legno e salmastro o di copertoni e pedali, se fosse di un ritorno o solo del ripassare per luoghi che son di terra e d’anima, s’accorgerebbe di non aver altre radici che quelle delle piante da vivaio, corte come gli amori d’estate.

Bustrofedon cura un blog in rete all'indirizzo http://quarantuno.splinder.com/

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