30.5.06

Sguardi 

posted in Voci - by Sbloggata per gentile concessione a LucaniArt

di Sbloggata

Sono profondi gli occhi di una donna del sud.
Sono stretti al sapore di un tempo passato, racchiuso tra le trame di un vecchio ricamo.

Sono intensi gli occhi di una donna del sud.
Sono intagliati nel ricordo di una lotta antica combattuta fra i profumi del grano o sotto le stelle sfilacciate dalle luci dei falò.

Sono violenti gli occhi di una donna del sud.
Sono ribelli nei loro segreti gustosi, sono nascosti sotto il palato di una sillaba mai scandita.

Sono silenziosi gli occhi di una donna del sud.
Sono sospirati nelle urla vestite di carbone e profumate di taciuta lievità.

Li conosco bene quegli occhi inariditi dal sole e affaticati dall’aria umida di una serata un po’ stanca. Quegli occhi rugosi che hanno visto cambiare il mondo in una rivoluzione di sensi che ha dimenticato i suoi perché.

Li conosco perché li ho ascoltati nei loro racconti appesantiti dentro lunghe pause che non prendevano fiato ma dilatavano il tempo per caricarlo di sé.

Vi sono occhi che il cielo non può cancellare. Scalfiti sulla roccia o sul sentiero levigato di un antico paese che ha taciuto la sua storia e la sua età.
Vi sono occhi che andrebbero ascoltati, raccontati, illuminati.
... perché è da loro che provengono i nostri sguardi.


Blò è semplicemente Lucana e il suo diario in rete si trova all'indirizzo Sbloggata.it

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17.5.06

Sorprese del pane nero 

posted in Voci - by Marina Pizzi per gentile concessione a LucaniArt

di Marina Pizzi

Profezie del prato / profezie del fuoco fatuo / fatuo (2005)

1.
Rose le spine
con tuoni di vocaboli in cantina
rose le spine.
La scala del male interno
faccia da citofono fuori uso.
2.
Sorprese del pane nero
a squarciagola la cicala
sull’intonaco morente.
Il pane sull’onestà dei binari
converta il pedinamento dell’abbandono
non alla balìa ma in balia
a promontorio a gomito d’intesa
mito risolto l’abbraccio rivolto.
3.
Nel corso delle azioni del cipresso
(il parapiglia delle sospensioni…)
sovrapposti cielo e terra
i parametri di nessun sacro
sono da indossare:
eremitaggio ennesimo il senza volto
quando di guardia il calice notturno
(raucedine di sale)
neppure lindissimo l’infante
spauracchio della preghiera
arenata in un manipolo di chiodi.

4.
Con le maree in apice e declino
il calendario impassibile dà sempre adito
ai servi della gleba al poco tempo
dei pasti senza amore senza scaltrezze
di perdere la strada.
Attori di conserve l’avveduto stato
dei corridoi impiegatizi dove la doglia
gara alla gara non ha di olimpo il podio.

5.
La barriera del protocollo ha scempiato
la logica del nome con la sostanza
dentro.
Alle grazie di scoiattolo l’acredine
del bosco in tizzone, il dire nero,
la parsimonia del legno quando
tanto ci mise per tendersi creduto
cresciuto in ombra.
La ciurma delle rondini avvizzite
nel similoro di un teatro
ha madri le stoppie.
6.
Ha il traghetto del sonno in un anfratto
nemmeno più felice,
tra pesi di aculei e germogli
la mongolfiera della festa
atterra alla meno peggio
con il fracasso della tempia torturata
dell’ultimo poeta.

7.
Gioia di apolide andartene
dal senso della terra
a fiaccole di fianchi
le spoglie delle doglie
di non tornartene.
Se ne vada la ronda e finalmente
non temi le grondaie dell’acustica
quando di notte di notte fonda
urlano i moribondi le scienze
del buio... l’io del borro.

8.
Sono stata in un tarlo di faccenda
il sangue senza fine sempre in eclisse
il lumino da comodino sotto choc
conventicole di furti le ore viete
il coma del leggio senza le sillabe.
9.
Profezie del prato,
profezie del fuoco fatuo:
fatuo.

10.
Lo sguardo cieco

Esco dal viso esco soltanto
sono le dita che non tardano mai
la contrazione. [Mai cessato il guardiano.]
Unico volo gli orecchini di ciliegia
quando la bellezza si mangiava
da angoli capitali il mondo.

Lato del gelo il più fraterno incontro.

Toc, toc, non ti aprirò, né con rugiade
né con le prime attrici delle lune
piene di spicchi in spicco!

11.
A torto aspettai che l’erba grave
vietasse di sé le unghie
con le stole di Penelope
a mo’ di salvata stazza financo
il pozzo.
Poté l’arciere non confondersi del sole
quando la venere del sogno
lo cimentò totale in tale cenere.

12.
Stagione la più tetra averti dentro
al minuscolo erbario delle stoppie
che spensero il fuoco.
Il padrone delle merci in avaria
unga le palme delle ombre
miracolo di refrigerio il fondo
loculo di stato.
13.
E’ nata la fionda per la respirazione
artificiale nei petti degli uccisi,
la dacia di Marina soffrì la fame
nelle travi dei ragni senza fortune.
Immediatamente nella fossa la scaturigine
la lira in darsena e merletto
in tetto di oceano e socchiuso
il no che non ti avvide ti sopì.
14.
Salva marea la meta delle ruggini
quando immortali le madri delle gioie!
15.
Mi va di convergere al baccano
le rondini che spirano chiuse
contro altane di vetro.
Tra meraviglie di cloni invecchiano
le mani di tutti.
Le corsie di veli sui cadaveri
vivi arresti di rantoli.
In meno d’un’acredine ho visto tutto
tutta la dispensa della croce
tutta l’ilarità della giostra
di natale la luminaria frigida.

16.
Ho un soldato che mi fa da fianco
ma disarmato molto meno di recluta.
E’ intimorito fossile d’infanzia
zazzera tagliata ad offesa.

17.
Vissi il sanatorio con le terrazze
limpide di una luce oscurante
senza stranezze di giovinezze
nei vili controlli dell’altromondo,
(liberticidi oratori cortili di murati
fatti di bambini).
Mattia si chiamava la rendita del mio Amico
c’incontravamo nelle resine dell’abete
per sismi di scoperte pene di plettro
quando appena si sconfinava il mondo.
Subìto e brusco l’ordine del dado
non confidò fortuna.
18.
La luce dell’ottobre sulla porta
dell’appartamento breve del breve
e breve con molte mandate l’antico
chiavistello la provvidenza senza
decoro il coro delle polveri
di essere stati tristi di verissimi
comandi di bulbo il buontempone
nascere. E scenda la dacia del
poeta in corda lungo le mosse
di ballerini di gioia, le dì gioiose
stanze.

19.
Con le vettovaglie dell’elemosina
l’officina della poesia.
Così grandiosa e prospera
l’eredità di niente
per la campana inerte.
E muore lento il pane crisantemo
e muoia sùbito il treno novellino
che in tanto sciame, in orario,
si ripresenta così se nulla fosse
la parsimonia avarissima dell’angelo.
20.
Questi grandi occhi fanno paura al lago
non al tram che sopporti in piedi
reduce al sangue che non ti colora
nell’ora ammanettata della sera
inganno e privilegio stadio del tatto
senza angeli il colonnato di san pietro.
Recluta al sangue che ormai ti abbandona
non dormirai la notte né la gita di pietra.

Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri di poesia:Il giornale dell'esule (Crocetti 1986) Gli angioli patrioti (Crocetti 1988) Acquerugiole (Crocetti 1990) Darsene il respiro (Fondazione Corrente 1993) La devozione di stare (Anterem 1994) Le arsure (LietoColle 2004). Raccolte inedite in carta, complete ed incomplete, rintracciabili sul Web: La passione della fine, Intimità delle lontananze, Dissesti per il tramonto, Una camera di conforto, Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi, Sorprese del pane nero, L’acciuga della sera i fuochi della tara, La giostra della lingua il suolo d’algebra.
Il poemetto L'alba del penitenziario. Il penitenziario dell'alba; le plaquette L'impresario reo (Tam Tam 1985) e Un cartone per la notte (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); Le giostre del delta (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004).
Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Ha vinto due premi di poesia.Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri, Pier Vincenzo Mengaldo, Luca Canali, Giuliano Gramigna.
Ha in corso di scrittura La giostra della lingua il suolo d’algebra. Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno.
Marina Pizzi fa parte del comitato di redazione della rivista
"
Poesia".

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9.5.06

Torno 

posted in Voci - by g per gentile concessione a LucaniArt

di Gianfranco De Simone

Perché se ti vedessi altrimenti che filtrata da venature ambrate di zuccherosità caraibiche, o altrove che nelle dure e scorbutiche terre – aride, nonostante le trame di fili ematici che le irrorano – causa del mio esser rizoma, o in ore diverse distanti e dimentiche di questi momenti in cui la mente troppo scava e poco ascolta, non percepirei lancinanti tremiti di dita da sedare in impressioni linguistiche.
Perché se non mi apparissi Città prima che Carne avrei modo di distogliere il pensiero o annegarlo nelle violenze del ricordo.
Ma sei strade di passi, d’incontri meticci, di conti e racconti, di straniata familiarità, di petali secchi a difesa di aromi, di abbozzi di sorrisi in curvature di sguardi più che in lucentezze di iridi. Contraddizioni climatiche di agosti balcanici e turchi. Le umide infusioni slovene e serbe, i tremori di Mostar, la brezza seducente e amica di Sarajevo, i caldi schiaffi di Istanbul. L’antinomia in note di ancestrali narrazioni ebraiche, ritmiche percussività bulgare, visionarietà zingare, circolarità dervisce. E ancora le rigorose arditezze del muezzin e i singhiozzi rebetici.
Inciampi geografici che smarriscono significati per raggiungere senso. Quello che più non si scorge tra le oblique scatole del borgo-gabbia dell’adolescenza, nella tosse mentale di mio padre, nelle ragioni e nei torti degli amici d’infanzia, nella combustione di foglie e resine nascosta all’occhio della Stanca Inquisizione di paese.
Sei irruzione nel ritorno desolato. Perché torno ancora. Come si torna ad un letto vuoto di parole. Per tributo e riconoscenza. Per bere dosi crescenti di senso del perduto sperando d’immunizzarsi contro lo sgomento paralizzante del senso di perdita. Torno, senza pretesa alcuna. Per assistere al compimento dei cicli. Per investirmi di realtà minuta che tradisce remote consuetudinarietà.
Ma se nel ritorno si incontra inaspettatamente Città, inesplorata, insolita, allora il disagio s’incrina. Perché a tornare è anche il fremito dei millepiani scompaginati.
Gianfranco De Simone è nato a Lagonegro in Basilicata e vive a Milano.
Collabora e scrive sulle seguenti riviste telematite Il Marsicano.net - Locanda riformista - In nome della cosa è - Sacripante
Il blog di g. Appunti Rizomatici

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4.5.06

Un sogno: domani limoni 

posted in Voci - by Tesi per gentile concessione a LucaniArt

di Luciano De Simone

Guardo un muro scrostato. E’ bianchissimo e imbrattato dalla mia ombra scura. Netta, precisa. Un bambino abbronzato ride con denti bianchissimi quasi come il piazzale, polveroso e riarso, che ne ospita le gesta. Gesta da bambino, terrorizza una lucertola. Le corre dietro, lei scappa. Rotea su se stessa poi decide. Affronta il muro e vi si arrampica snella e prensile fino alla testa della mia ombra. Sembra fluorescente. Il bambino fa scivolare le mani sul muro nel tentativo d’acciuffarla, ma prende coscienza quasi subito dell’inadeguatezza della propria condizione di uomo. Un velo fugace di tristezza e disillusione, visibile solo da occhi veloci ed attenti, attraversa il suo sguardo. Ma è solo un attimo. Adesso corre di nuovo ridendo un po’ sguaiato e urla qualcosa che non si capisce. Lingua madre. Una donna è piccola, lontano. Devi attraversare l’afa con un taglio d’occhi strizzati per vederla a fuoco. Intorno case bollenti con occhi neri quadrati come finestre senza vetri, la osservano. La donna porta un cesto sulla testa. E’ vestita di nero come sua madre e la madre di sua madre. Viene avanti flessuosa, incurante dei secoli di lutto affondati nel nero della sua veste. Il suo corpo è prepoternte e sudato. Si muove nel bianco assolato, fotosintesi quasi retorica di tutti i sud del mondo, con la fluidità dei pesci nel mare e la determinazione di chi deve. Come se la cesta e l’arsura non le pesassero. Il bambino le ronza intorno. Insieme avanzano.
Vicino al muro c’è una sedia di legno impagliata. Mi tolgo la giacca e la stendo sullo schienale della sedia. Faccio lo stesso con la camicia ormai zuppa. Poi mi siedo e chino la testa fino a toccarmi con la fronte le ginocchia. Sono stanco. Respiro a bocca aperta e il sudore che mi cola dalle sopracciglia crea una pozza tra le due punte delle mie scarpe. Nel piccolo lago di sudore si specchia un volto. La donna mi scherma il sole, posa la cesta sulle mie ginocchia e con un gesto sensuale e secco butta indietro testa e capelli. In bocca un sorriso di sollievo ad occhi chiusi. Il bambino affonda una mano nella cesta e ne estrae un fico. Lo porge alla donna e le fa: me lo sbucci? La donna mi prende la testa tra le mani e la stringe sul suo addome. Sono contenta che sei tornato, sussurra con la sua voce calma e roca. Il bambino le fa: sono qui, mi sbucci ‘sto fico? Quando mai sono mai partito. Non vedi? Sono ancora un bambino.
Allora mi prende per mano e mentre ci allontaniamo fa: basta fichi, è troppo caldo. Domani limoni.
Luciano De Simone (1956). Studi di architettura non completati per dedicarsi alla fotografia che pratica per oltre vent’anni. Nato a Milano, calabrese di origine, romano d’adozione, vive e lavora a Torino. Da quindici anni è regista documentarista e video performer. Si occupa di comunicazione urbanistica e territoriale. In particolare lavora sulle trasformazioni fisiche e sociali delle città e dei sistemi territoriali, tema intorno al quale progetta e produce mostre, eventi, incontri, spettacoli. Si occupa di sistemi, tecniche, tecnologie e linguaggi nella società moderna, oltre che di cinema, fotografia, comunicazione di massa e nuove tecnologie applicate ai sistemi visivi. Studia i linguaggi giovanili e tiene corsi di rappresentazione del progetto presso la facoltà di Architettura dell’Università di Torino e corsi di comunicazione pubblica e territoriale per le amministrazioni pubbliche. Attualmente è impegnato nella scrittura di una sceneggiatura cinematografica.
Il blog di Tesi In so()ggettiva

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1.5.06

Compar Vittorio 

posted in Voci - by Biru per gentile concessione a LucaniArt

di Biagio Russo


Una bambina scarmigliata, sudata per l’afa e per la corsa, irruppe nella bottega di Vittorio il tabaccaio, sotto le colonne fasciste di Piazza della Croce. L'ometto pingue e calvo, seduto a rovescio, stava sonnecchiando placido sugli avambracci incrociati sullo schienale.
Il caldo pesava sul respiro e sui movimenti gastrici di una digestione lenta ma rumorosa. Persino le mosche, nell’inerzia pomeridiana d’agosto, tacevano tra gli scaffali polverosi e inerti, zeppi di contenitori dalle mille fogge.
La voce della creatura franò senz'argini nella sacra ara della controra: «Cumpà Vittò ha dìtt mamma se mi putît ra ciént lîr r’ spirît».
Alla luce rovente che aveva invaso il negozietto, e contro cui si stagliava la sagoma spigolosa della bimba, Vittorio il tabaccaio oppose un pigro grugnito, mentre la mano tozza e bianchiccia riparò gli occhi feriti dall’irruzione del sole. Si sollevò. Lentamente. Molto lentamente.
La leva sui gomiti gli evitò che le ginocchia informicolite lo ricacciassero sui vimini logori della sedia e si diresse verso un antro che ne inghiottì la rotonda figura.
Solo lo strascicare delle pantofole giungeva alle orecchie della bambina, che nel frattempo cercava di detergere il sudore con il dorso delle manine. Senza però accorgersi delle striature nere che involontariamente si disegnava sull'ovale lentigginoso.
Dopo un po', il trambusto nel ripostiglio cessò. E il lamento delle pantofole anticipò l'epifania di compar Vittorio.
Con una mano reggeva un damigianotto impagliato a metà, da cui si intravedeva lo sciabordare dell’alcool. Il moto ondulatorio accompagnava il lento ritmo tribale dei suoi piccoli passi. Con la sinistra reggeva invece un piccolo imbuto macchiato dal tempo.
La bambina si affrettò a tirar fuori dalla tasca del grembiulino una minuscola bottiglietta di gazzosa, che liberò del sughero. Lo schiocco rimbalzò sotto le travi tarlate. E attese.
«Cummaré sintît si è chist ca vôl mamma vosta».
L’odore familiare le punse le narici, e una smorfia le accostò le labbra al naso, mentre la testolina freneticamente assentiva.
Compar Vittorio richiuse il damigianotto e, lemme lemme, ritornò verso il nulla. La bambina, esterrefatta, con la bottiglietta a mezz’aria, osservava intanto i movimenti del tabaccaio, che ritornato si era appollaiato sulla sedia. Incrociò di nuovo le braccia sullo schienale e richiuse gli occhi, con l’espressione di un beato in paradiso. Silenzio.
La bambina farfugliò qualcosa per attirare l'attenzione e quando capì dai sopraccigli inarcati dell’ometto di essere osservata, sollevò la bottiglietta vuota agitandola più volte, a mo' di campanellino.
«Cumpà Vittò ma...», fu tutto ciò che riuscì a dire.
«Cummarè – rispose dolcemente il bottegaio –, cummarè, ricît a mamma vosta ca cu ciént lîr v’ pozz fa sent sûl addôr».
Mentre la bambina infilava la porta d’uscita, balenando col sole sul collo, compar Vittorio richiuse gli occhi.
Il sospiro che seguì sollevò dal bancone uno sbuffo di polvere, che iniziò a rutilare intorno a un clandestino raggio di sole.
Biagio Russo (Spinoso 1962) è laureato in lettere moderne e insegna. Per anni ha lavorato come redattore editoriale presso le Edizioni Osanna di Venosa. È giornalista pubblicista e ha collaborato con molte testate, quotidiane e periodiche. E' autore e curatore dell'unico sito web dedicato a Leonardo Sinisgalli. E' tra gli organizzatori di ArtEstateSpinoso. Ha pubblicato "Nonna raccontami una storia" (Lavello, 2002), "Il pezzo della salute - Poesia antropologiche" (Ed. Ermes, Potenza 2005).

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